Vincere un’idea

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Fino a circa due mesi fa, Francesca MannocchiCecilia Sala e Paolo Giordano avrebbero dovuto parlare d’altro a Più libri, Più liberi. Di guerra, certo, ma di quella che giorno dopo giorno fa sempre meno scalpore nelle redazioni dei giornali, ammette Marco Zatterin, moderatore dell’evento e vicedirettore de La stampa. Eppure i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese evocano speranze poche e timori simili, che Zatterin condensa in una domanda ai relatori: chi vince?

Francesca Mannocchi è appena rientrata da Hebron, West Bank (30km a sud di Gerusalemme), e come i suoi colleghi confessa che parlare di vittoria ha senso solo da un punto di vista militare. Si può riconoscere la superiorità della Russia e d’Israele, ma bisogna fare i conti col fatto che “si può vincere una guerra, non un’idea”. Dopo l’attentato del 7 ottobre, tutti coloro che ancora speravano nell’utopia di ‘due popoli e due Stati’ si sono dovuti ricredere: la fatica di quanti avevano lottato per un compromesso è stata spazzata via dall’attacco al rave e dalla conseguente apertura delle ostilità—con pochi precedenti nell’ultimo secolo in quanto a bombardamenti, ricorda Cecilia Sala citando il New York Times.

Tuttavia, lo squarcio fra Palestina e Israele è da tempo uno dei sintomi della faglia collettiva che divide oriente e occidente. Motivo per cui, anche prima della strage al Nova Music Festival, era legittimo un certo scetticismo rispetto alla possibilità di una soluzione pacifica. Ma è anche vero che lo scoppio di una vera e propria guerra in cui Israele ha chiamato alle armi ben trecentomila riservisti (il 4% della popolazione) — contro un nemico che è evaporato già dopo le prime settimane di combattimenti, ricorda Mannocchi — è un segnale forte dal punto di vista ideologico: significa credere “alla fantasia che eliminare Hamas sia l’unico scenario plausibile”, dichiara Paolo Giordano. Lo scrittore è da poco rientrato da Tel Aviv e racconta che, fin dall’aeroporto, una strana atmosfera lo ha accompagnato nella metropoli. Non tanto per i missili intercettati in lontananza, le esplosioni temute ma nascoste, al di là dell’Iron Dome, ma per la patina di normalità che è calata sulla città: “una lamina su un liquido oscuro” tradita dall’abnorme presenza militare e dall’ubiquità delle foto di ostaggi. Una facciata che nasconde un “trauma profondissimo, capillare”, ammette Giordano, e che ha cancellato ogni sfumatura nel dibattito politico: destra o sinistra non ha importanza, tutti sono fermi allo shock di ottobre. E dallo shock si può guarire solo con l’eradicazione di Hamas

Peccato che Hamas non corrisponda in toto alle Brigate al-Qassām, il braccio armato del movimento, ma sia fatto anche di civili che si occupano di istruzione, nettezza urbana e tutto ciò che serve a una società per funzionare. Questo però non cambia la politica di “guerra al terrore” del governo Netanyahu: al contrario, ogni morto di Hamas è un terrorista in meno. Inoltre, sottolinea Mannocchi, prima della guerra quei morti avevano un peso specifico diverso. Adesso che arrivano sempre meno immagini da Gaza invece — perché anche i coraggiosi reporter “che non se ne sono andati e non sono morti” fanno fatica a comunicare con l’esterno — non solo si smette di vedere, ma anche di sentire: “mille o ventunomila diventa la stessa cosa”. E proprio questa assenza è il nucleo dell’atmosfera funesta che Paolo Giordano ha sperimentato a Tel Aviv — “pre-traumatica”, come scriveva nel suo Tasmania.

Ma all’angoscia anticipatoria del dopoguerra si accompagna lo sconforto di chi aveva lavorato alla decolonizzazione delle città-lager, nei loro perimetri alfabetici; si accompagna la supplica di chi, come Ahmed Mustafa, scrive ai leader di Hamas che “il sangue di molti non vale l’ideologia di pochi”; e si accompagna anche la delusione di chi a Gaza, prima del 7 ottobre, credeva ancora in una pacificazione fra Israele e Palestina (il 74% dei partecipanti al sondaggio Arab Barometer della Princeton University). Nel podcast Stories di Cecilia Sala vengono raccontati anche altri atti drammatici di questa disillusione di massa, tuttavia Francesca Mannocchi pone l’attenzione su chi, di questa disillusione, non può che gioire: chi lavora sui margini, all’ombra di questa guerra e dell’altra…

Sala dichiara che gli Stati Uniti, pur se apertamente schierati con Israele per la continuazione del conflitto ad libitum, hanno recentemente mediato in Qatar per un cessate il fuoco in cambio di ostaggi. Si parla anche di contatti diretti fra l’intelligence statunitense e Hamas per convincere i leader estremisti a scegliere l’esilio e terminare il conflitto il prima possibile. D’altronde è chiaro che allo stato attuale resta ben poco spazio per manovre diplomatiche risolutive. Se però si allarga la prospettiva sullo scacchiere globale, suggerisce Mannocchi, se si guarda alle comparse e non ai protagonisti, faranno una certa scena i movimenti di Turchia ed Egitto. In particolare l’ascendente sulle piazze arabe e indiane di Erdogan che, da abile negoziatore coronato di kefiah, simpatizza con Hamas definendola “un’organizzazione armata a difesa della Palestina”.

In questo gioco delle parti, l’impressione condivisa è quella di trovarci tutti davanti a una catastrofe annunciata da lungo tempo. A così breve distanza l’una dall’altra, le guerre a Est si specchiano vicendevolmente e offrono degli squarci sul passato e sul futuro — e non solo del Medioriente. Sul passato perché, come mostra in un grafico Marco Zatterin, in termini di morti, sulla popolazione mondiale la guerra lascia dietro di sé una scia piena di picchi e depressioni: la traccia “dell’impazzimento e del rinsavimento” umano negli ultimi seicento anni. La proiezione futura invece la sintetizza bene Francesca Mannocchi: “questa guerra alimenterà l’odio reciproco, allontanerà le parti e darà motivo di risentimento per gli anni a venire”.

Del resto, come un trauma individuale non elaborato prepara il terreno a nuove ferite, anche un evento collettivo può segnare l’inizio di nuove catastrofi globali, quelle che Carl Gustav Jung chiamava “epidemie psichiche”. Ma il timore non è tanto per questo: come afferma Paolo Giordano in conclusione, è solo in prossimità della morte che si vede lucidamente l’orrore della guerra. E questa lucidità è impensabile in tempo di pace, quando gli anni hanno fatto calare una cappa di oblio sulla sofferenza. Ma è proprio là, nell’oblio, che si compie il male più grande: nelle parole della scrittrice Marguerite Duras, “nell’oblio si preparano le nuove guerre”.