Di solito, dopo aver fatto colazione, sento freddissimo. Allora è mia abitudine, quando ho tempo (quasi sempre, dal momento che soffro di insonnia da quando ero bambina), di rannicchiarmi nella mia coperta rossa di pile, per stendermi qualche minuto sul divano. Quella mattina ho aperto l’applicazione di Facebook sul mio iPhone. Una mia collega dell’università aveva pubblicato un link: “I nipoti di Babbo Natale”. E io, che da sempre ci ho creduto ma oggi, invece, in Babbo Natale ci spero, ho premuto con il dito sullo schermo. Qualche secondo di attesa, giusto il tempo necessario perché anche la fibra di casa mia sentisse la sveglia mattutina, ed ecco aprirsi una pagina bianca e rossa. È una Onlus che si occupa di assistenza agli anziani. È un progetto bellissimo: gli anziani che vivono in alcune case di riposo italiane esprimono un loro desiderio per il Natale venturo. Tra i filtri, a inizio pagina, trovo “seleziona regione”. Inserisco Lazio, e poi Roma. Quella mattina, non so quanto tempo io abbia passato dentro la mia coperta rossa di pile: il caffè sul fuoco e il cielo, fuori, coperto. Leggevo senza staccare un attimo lo sguardo dallo schermo piccolissimo del mio telefono. Ricordo di aver pensato a come la vita, inesorabile, passa senza fermarsi mai: Renato, Concetta, Enrico, Zefferina, Luigi e chissà quanti altri anziani nel mondo, si crogiolano notte e giorno nei loro più reconditi ricordi d’infanzia e di gioventù.
Mi sono sentita al sicuro e, in quel preciso istante, ho pensato che non desideravo altro se non la mia coperta rossa e la mia memoria che, ancora giovane e fresca, mi permetteva di ricordare piuttosto bene i compleanni di amici e parenti, le date di uscita dei film al cinema, gli impegni quotidiani, la strada da fare per arrivare a casa delle mie amiche in macchina, gli amori che ho avuto, le lacrime che ho versato, i litigi che ho affrontato. E allora mi sono chiesta cosa questi anziani ricordassero di sé stessi, come fossero arrivati lì in quella specifica RSA, se fossero nati ricchi o poverissimi, se avessero studiato o lavorato fin da giovani; a quante volte ci si può innamorare in 103 anni di vita. In quel momento avrei voluto che Evelina – così mi pare si chiamasse – fosse davanti a me per domandarglielo. Il suo desiderio per questo Natale è «ricevere qualcosa che addolcisca le giornate» perché, scrive, «nella mia vita ho fatto e dato molto, alla mia età non sento di desiderare grandi cose». Ecco la chiave che apre tutte le porte: il dare incondizionato. Il fatto è questo: l’amore non va spiegato, non esiste un manuale che illustra pedissequamente le regole da seguire o da imporre.
Si ama come viene: dare molto e poi, se il destino ci vuole un po’ di bene, ricevere di conseguenza. Mi sono riconosciuta in una donna di 103 anni che di vita ne ha certamente vissuta molta più di me e, sicuramente, la sua è stata più dura della mia. Probabilmente lei, a 24 anni, non poteva farsi bruco in un bozzolo rosso di pile. Di certo non era concesso nemmeno a Giancarlo, un signore lombardo di 86 anni, che racconta di aver fatto il bersagliere per una vita intera e, per tale ragione, desidererebbe ricevere da uno dei suoi nipoti «un maglione del comparto dei bersaglieri, così da completare il look per le feste».
Nei secondi che ho atteso per il refresh della pagina web, si sono susseguiti caotici questi e altri pensieri. Su Roma mi sono imbattuta in una RSA di Trastevere: qui, alcuni anziani di diverse età, si espongono con la loro personalissima “letterina a Babbo Natale”, quasi a tornare bambini per ritrovare un po’ di quella spensieratezza che, nel corso della vita, si sfuma e si perde ma che, forse, si ritrova quando da anziani non si hanno particolari e temibili malanni.
Renato ha 81 anni. «Ciao sono Renato. Per Natale mi piacerebbe avere una giacca blu, il mio colore preferito, così da poter stare al caldo in questo periodo di freddo!». Ho sentito l’umanità delle sue parole semplici, la genuinità del suo desiderio di lana e ho risposto: «Ciao Renato. Anche io vivo a Roma, sono molto legata a mia nonna e anche lei spesso si sente sola, ma so di poterla rendere felice quando passo del tempo con lei. Vorrei poterti regalare un po’ del calore che cerchi».
Ho cercato in lungo e in largo un maglione blu, taglia 60, con la zip. Sapevate che una 60 equivale a una 4XL? È incredibile le cose che si scoprono quando, per una volta, distogliamo lo sguardo da ciò che vogliamo noi per incontrare i desideri altrui e farli un po’ nostri. L’ho trovato e l’ho impacchettato.
Perché lasciare che le tracce di Renato e dei suoi coetanei si perdano nel nulla di un altro Natale che passa? Perché lasciare inascoltato il desiderio di Giovanni («un abbonamento annuale al giornale di Brescia») o quello di Domenico («un giro in slitta»)? Volevo sapere di più su Renato, volevo parlargli di come, quella mattina, ero arrivata a lui tramite Facebook. Il che deve essere impensabile per un uomo di 81 anni che, nato nel 1941, non ha certo vissuto i suoi primi inverni al caldo. Chissà se aveva avuto dei figli, se aveva nipoti; magari non si era mai sposato, oppure era convolato a nozze moltissime volte. Ho cominciato a fantasticare sulla sua vita, sui suoi gusti musicali, su come preferisse la pizza.
“Certo, puoi parlare con lui, sarà contento di vederti. Noi organizziamo la cena di Natale il 19 dicembre. Puoi venire quando vuoi, ha viaggiato molto e ha tanto da raccontare”. E così, la mattina del 19 dicembre, sono uscita da casa, senza nemmeno essermi rinchiusa nella coperta. Ho costeggiato parte delle Mura Aureliane, poi le Terme di Caracalla, il Circo Massimo, la Bocca della Verità, Ponte Palatino e, infine, Trastevere. Nel tragitto ho pensato a come dovesse essere diversa Roma quando Renato aveva la mia età.
Arrivata al civico 6 del Vicolo di San Maria in Cappella, in seguito, ho scoperto che Renato, alla mia età, non si trovava nemmeno qui a Roma.
Mi accoglie con un sorriso gigante. È al telefono e sta parlando in inglese; non so con chi. Mi viene da sorridere a vederlo lì, nel suo metro e novanta, vestito di tutto punto con la cravatta infilata con precisione nel golfino verde, rosso e blu.
Decidiamo di sederci sulle panchine in muratura della struttura che lo ospita da poco più di un anno. Sfoggia con entusiasmo la tessera dell’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia. Mi salta subito all’occhio: “Udine, 23 luglio 1941”. Poco dopo lo avrei capito anche da me che veniva da lì, da quell’accento marcato che nemmeno i 45 anni trascorsi in Sud Africa erano riusciti a cancellare.
Dalla cucina proviene un odore fortissimo di minestrone di verdure; sopratutto di spinaci.
In Sud Africa Renato ha fatto grandi cose: nel 1984 si è ritrovato a dover amministrare una fabbrica di carta, all’epoca sorta da pochissimo sulle rovine di un campo disabitato, nei pressi di Johannesburg. I fogli di carta – mista a polistirolo – che si trovano tra la fettina di carne del supermercato e la sua confezione li ha inventati lui. «Sai quelli chi li ha inventati? È stato Renato» – afferma, senza nemmeno un briciolo di modestia, ma con tanta dolcezza. Prima di lavorare in fabbrica, però, ha fatto parte di una squadra di paracadutisti: ha eseguito 84 lanci, di cui 3 di specializzazione antiterroristica.
Mentre il sole picchia, in una fredda e asciutta giornata di dicembre, tra i nostri reciproci sguardi, una simpatica “signora in fucsia”, di nome Irene, fa avanti e indietro per il cortile: lo ammonisce perché, come suo solito, si perde in chiacchiere inutili.
Invece a me piace ascoltare la sua storia e sapere della sua passione per la palestra. Ancora oggi, mi dice, si dedica a esercizi ginnici. «Se le tue gambe non sono buone non avrai mai niente» – gli ripeteva il padre che, quando era bambino, lo seguiva in quella preparazione atletica che, alla fine, gli sarebbe senz’altro tornata utile. Il papà di Renato, però, di mestiere faceva l’ingegnere ai cantieri navali di Monfalcone. E questo, mi dice, è importante: è tramite un ingegnere torinese, in visita in Friuli, che viene infatti a conoscenza di un nuovo progetto che, di lì a poco, lo avrebbe condotto in Sud Africa.
Renato parte nel 1965 e in Sud Africa resterà a lungo. Lí condurrà una «vita rilasciata», all’insegna di serate memorabili, tra ristoranti di lusso e Night Club, giri in macchina in compagnia di «belle signorine» (che, ancora oggi, apprezza molto) e giornate dedite al lavoro.
Vede che sono infreddolita e che, forse, vorrei tornare nel mio pile rosso – anzi, vorrei averlo con me mentre ascolto la sua vita; la vita di un perfetto sconosciuto. A Johannesburg, invece, faceva caldissimo in dicembre, mi dice. Eppure quel suo rigore antico lo portava comunque a indossare sempre e solo giacca e cravatta— proprio come fa qui, oggi, tra una schiera di simpatici vecchietti in tenuta da jogging — neanche il suo fosse un obbligo morale.
Renato è un uomo ambizioso e lo è sempre stato, tanto che in Sud Africa seguì un corso serale per prendere la licenza del Liceo industriale. Ma è anche molto litigioso e, per questo, dopo 5 anni di onorata carriera lasciò la ditta a causa di un diverbio con un suo superiore. È così che, per un caso fortuito, trovò quel lavoro che gli avrebbe permesso di accaparrarsi il titolo di “inventore della carta da carne” (che è un nome di mia fantasia, ma so che lo apprezzerebbe).
In realtà di lavoro avrebbe dovuto farne un altro: aveva letto un annuncio e si stava recando al luogo concordato per un colloquio. Avrebbe dovuto percorrere 1300 km. Ricorda di essere partito da casa alle 3.25, che dice essere l’ora esatta segnata sull’elegante orologio da polso che indossa anche oggi. Ha guidato fino alle 20 del giorno dopo, per poi rendersi conto (e come sarebbe potuto essere altrimenti?) di avere fame. E allora, come ogni italiano all’estero sarebbe stato tentato di fare, ha deciso di fermarsi in una locanda la cui insegna prometteva una tipica cena nostrana. Qui incontrò un costruttore compatriota che gli offrì un lavoro che, tuttavia, accettò solo 3 anni e 10 mesi dopo, durante i quali lavorò per una strana organizzazione di protezione internazionale.
Da come ne parla, sembra un lavoro piuttosto rischioso: lo sa bene il suo amico John, venuto a mancare in circostanze misteriose. Una volta tornato a a casa era così provato che decise di farsi prescrivere delle pastiglie per l’ansia da un celebre medico tedesco, il cui nome dovrebbe suonare, all’incirca, Hans Ross. Per fortuna a sostenerlo c’era la sua prima moglie, Ivonne, con la quale ebbe due figli. Uno di loro, Dario Massimo, vive in Sud Africa, ed è proprio “lo sconosciuto inglese” con il quale avevo sentito Renato parlare al telefono.
È stato allora, appena dopo il suo ritorno, che iniziò il suo nuovo e (quasi) definitivo impiego in società con l’americanoSignor Williams. Nel 1984, Renato infatti riprogramma proprio quel macchinario americano, alto 22 metri, che gli permetterà di produrre il minuscolo foglio di “carta da carne” di sua invenzione.
Mentre mi racconta questa storia mirabolante si siede affianco a noi Sandro, un anziano vagamente simile a Johnny Depp che comincia ad accendere una, due, tre, quattro sigarette nel breve tempo che rimane lì: ha due enormi anelli in acciaio, occhiali a goccia, una coppola a pois grigi e una lunga sciarpa in lana con le frange lilla. Marcella, una signora molto anziana, lo scruta di lontano con occhio giudice.
Renato poi interrompe il racconto del suo passato lontano e mi dice con rammarico che, da quando c’è stata la pandemia, non è più lo stesso. A causa del Covid, sostiene, è stato lasciato dalla sua compagna di allora. Non le aveva detto, per vergogna, di trovarsi in una struttura per anziani. Le aveva mentito: Renato non aveva nessun giovane coinquilino e, nei mesi più oscuri della pandemia, non poteva certo lasciare la sua camera con il rischio di infettare chi, come lui, si trova a vivere di attese in questo bel giardino che accoglie le nostre chiacchiere da ormai due ore.
Riprende la narrazione: dopo aver venduto l’attività di ferramenta – suo ultimo lavoro in Sud Africa – è tornato in Italia, dove ha incontrato la sua seconda ex moglie. Un’«affabile signora» di Lucca la cui arte culinaria merita, a suo dire, una certa menzione. Purtroppo è durata molto poco, perché lei desiderava tanti bambini e lui, invece, ne aveva già due che, sostiene, «bastano e avanzano». Dopo averla lasciata non è uscito di casa per due mesi: si stendeva sul tappeto, con un libro sotto la testa, ascoltando in loop il vinile di Madama Butterfly. Non sa spiegarselo, ma un giorno è riuscito finalmente a dimenticare (fittiziamente) l’ennesima fine della sua vita.
Renato avverte molto il senso ultimo delle cose e questo ci accomuna. Il giorno dopo che la sua sopracitata “fidanzata della pandemia” lo ha lasciato, si è ritrovato ad avere la pressione a 200; e a a 45 anni, avendo dovuto rinunciare alla “sua Susi” perché assai più giovane di lui, passò molto tempo a crogiolarsi nella perdita di «quel sorriso che aveva lei quando la stringevo a me».
Una fine definitiva, per fortuna, non c’è ancora: Renato vorrebbe trasferirsi in America…«Ho ancora una vita davanti» – afferma mentre, sorridendo compiaciuto, va a mangiare la sua porzione di minestra di verdure con Irene e Sandro che, beffandosi del ginocchio malandato di Marcella, con generosa apprensione, attendono il mio nuovo amico dagli occhi verdi sulla soglia della mensa.
Va’ Renato; hai gambe fortissime e un sorriso contagioso. Buon Natale ai nonni di tutti noi.