“Aprire brecce, creare valore”, intervista a Mis(S)conosciute

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Nel contesto di un dibattito su letteratura e femminismo, il ruolo dell’editoria non può che essere fondamentale: è l’editoria che, infatti, facendosi specchio della cultura corrente, traduce in materiale scritto gli stimoli che essa decide di raccogliere, decretandone così la legittimazione ultima. Questa legittimazione avviene non solo nel presente – con un mercato editoriale che decide quali idee abbiano il diritto a risuonare di più –, ma anche e soprattutto al passato e al futuro: l’editoria contribuisce al formarsi di una tradizione e di un canone letterari, che determinano sia le letture di coloro che verranno, sia la reperibilità dei libri che sono stati scritti. 

Da qui, allora, il ruolo attivo dell’editoria nella marginalizzazione ulteriore di quelle soggettività che, nella società e nella cultura, sono già marginalizzate; ma da qui, nondimeno, il potere riabilitativo che essa potrebbe rivendicare nell’autorizzare le scritture dei soggetti ai margini – autorizzare «nel doppio senso di ‘permesso di scrivere’ e ‘diventare autore’, assumere cioè una propria identità stilistica, rifondare un genere» (Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi, Fragili guerriere. Manifesto di poetica per una nuova proposta femminista).  

Pertanto, come fa Adriana Chemello nel suo Oltre il recinto, è necessario riecheggiare la Virginia Woolf delle Tre ghinee e spendere la terza e ultima ghinea per l’editoria, per il suo ruolo di divulgazione delle scritture delle donne e dei soggetti marginali, per il suo potere di ampliamento delle possibilità di ricezione e di canonizzazione dei testi. E spendere l’ultima ghinea anche per chi –  come le ragazze del progetto “Mis(S)conosciute”, presenti al Salone del Libro di Torino e intervistate qui di seguito – fa della divulgazione delle opere di autrici dimenticate una missione continua, eversiva nella sua esaustività curatoriale ed esemplare nella sua capacità di leggere, rileggere e cambiare la realtà. 

 

Dal 2019 fino a oggi, con l’inizio del vostro progetto “Mis(S)conosciute – Scrittrici tra parentesi”, avete letto innumerevoli libri scritti da donne; a partire da questo, vorrei che mi parlaste della reperibilità e della disponibilità di questi libri, e del loro significato rispetto alle politiche editoriali che sono state messe in atto negli ultimi decenni in Italia. 

Maria Lucia: Io comincerei dal famoso episodio del podcast su Fabrizia Ramondino, perché quello è stato abbastanza esemplificativo della questione della reperibilità: noi ci siamo messe a fare un episodio su una scrittrice che fino alla morte è stata una figura abbastanza di spicco nella vita culturale italiana e che, però, dopo la morte non è stata mai più ripubblicata per un lungo periodo – c’erano soltanto un paio di libri in catalogo di Einaudi, Althénopis L’isola riflessa. Quindi, questo episodio noi siamo riuscite a farlo – tra l’altro con le biblioteche chiuse, perché era pieno lockdown – soltanto grazie alla biblioteca personale dei parenti di Silvia; altrimenti questi libri erano irreperibili all’epoca, se non in Biblioteca Nazionale o nelle biblioteche che abbiamo a Roma e che, però, erano chiuse per il lockdown. 

Silvia: Infatti il lockdown e tutto il periodo che abbiamo vissuto sono stati particolarmente esemplificativi della problematica di reperire questi testi non più in circolazione: io ero stata fortunata, una settimana prima del lockdown ero riuscita a prendere in prestito un paio di libri di Ramondino, che poi mi sono letta durante la quarantena; gli altri erano però irreperibili, sia in e-book che online, se non in prime edizioni a costi esorbitanti. Quindi sì, quello è stato un caso in cui ci siamo rese conto di questo problema. Perché poi, devo dire la verità, io la Ramondino come scrittrice già la conoscevo, l’avevo già letta, avendo i libri a casa non pensavo che ci fosse questa difficoltà di reperirla, e questo per noi era un po’ inspiegabile, perché appunto è un’autrice importantissima del ’900 e anche degli inizi del 2000 – lei è morta nel 2008 e ha continuato a pubblicare fino alla fine, il giorno dopo che è morta è uscito il suo ultimo romanzo – quindi è anche abbastanza contemporanea, non parliamo di un’autrice della fine dell’800. E infatti, siamo state molto contente quando abbiamo scoperto che Fazi aveva in programma la ripubblicazione della sua opera, vuol dire che qualcosa si sta muovendo. 

Maria Lucia: Devo dire che adesso, effettivamente, da dopo il lockdown, ci sono progetti di recupero un po’ più massicci. Tuttora, peró, non è proprio facilissimo reperire i testi di alcune scrittrici. Poi abbiamo l’altro caso di Olga Tokarczuk – noi, è vero, ce li andiamo proprio a pescare: Olga Tokarczuk è una scrittrice che ha vinto il Nobel, tuttavia, ci sono dei libri che ancora non sono pubblicati in Italia, Silvia li sta leggendo in inglese. 

Silvia: Sì, anche Olga Tokarczuk è abbastanza emblematica: noi l’abbiamo intercettata nel 2018, prima di Mis(S)conosciute, grazie a un articolo che era uscito sul New Yorker prima che lei vincesse il Nobel nel 2019; l’avevo intercettata e mi aveva proprio folgorata come personaggio – era un articolo che descriveva lei come personaggia – e quindi, mi sono messa un po’ a cercare in italiano e c’era solo una raccolta di racconti tradotta da un corso universitario di studi polacchi, e poi ho recuperato Vagabondi quando è uscito in italiano. Tokarczuk fu pubblicata da Nottetempo in tempi non sospetti ma a loro erano scaduti i diritti e, dopo due giorni, lei ha vinto il Nobel e i diritti li ha comprati Bompiani, per ironia della sorte. D’altra parte, le case editrici piccole devono fare valutazioni commerciali piuttosto importanti, evidentemente non vendeva. Eppure sono le piccole case editrici che riescono a mettere sul mercato italiano scritti di valore, alla fine è grazie al loro lavoro e alla loro ricerca: da quello che abbiamo capito, anche conoscendo direttamente gli editori, i più piccoli devono puntare sulla qualità, e non lo fanno tutti ma molti lo fanno, è un lavoro importante. 

Come è possibile capire dal vostro meme, realizzato in collaborazione con Chiara de @_imieiritagli_ e diventato quasi celebre, in Italia c’è quello che voi avete chiamato un vero e proprio abisso editoriale in cui le scrittrici del ’900 sono state fatte affondare, venendo di fatto delegittimate e rimosse da ogni tipo di tradizione o canonizzazione letteraria. Quello che vorrei chiedervi è come e perché le autrici sono state escluse dal canone letterario e, di conseguenza, dalla memoria collettiva?  

Giulia: Questo è un discorso, un interrogativo che noi cerchiamo di sviluppare da tanto tempo – tra l’altro, stiamo cercando di farlo anche attraverso dei progetti didattici con le scuole e con dei progetti anche più vasti a cui speriamo di poter dare corpo l’anno prossimo – e la cui risposta, alla fine, non è così complicata come sembra: è una risposta che non è lontanissima, anzi, è praticamente coincidente con quella che proponeva Bernardine Evaristo l’anno scorso, quando ha pubblicato un articolo accademico – che abbiamo tradotto e che c’è sul nostro blog – in cui diceva che il canone è una emanazione dell’Accademia, a cui poi si associa anche la società editoriale che, fino a tempi non remoti e oserei dire fino ancora a oggi, è prevalentemente a dominazione maschile. E di conseguenza, nel passato ancora di più, tutto ciò che atteneva all’esperienza femminile – rispetto alla sfera dei temi oltre che a quella dello stile – era automaticamente squalificato rispetto al preteso universalismo della scrittura maschile. E questa cosa è naturalmente una costruzione, una cosa che non ha nessun tipo di fondamento ma che, tuttavia, costituisce un muro che è difficile da buttare giù, perché è un costrutto secolare che ha dato forma, in seguito, a quelle che sono l’Accademia, la scuola, l’editoria, il mercato editoriale e, di conseguenza, anche i gusti dei lettori. Quello che, quindi, noi vorremmo provare a fare è aprire delle brecce con i temi di cui parliamo e, in questo, il meme ci ha aiutato, forse anche perché visivamente rende abbastanza manifesta questa sproporzione; e vorremmo cercare di avvicinare soprattutto i lettori, e lavorare parallelamente anche con le scuole: perché se si comincia da lì con questa piccola riforma, allora, poi probabilmente ci saranno consistenti mutamenti nel modo in cui la letteratura verrà trasmessa, anche – banalmente – nei manuali scolastici, nei programmi universitari. 

Riagganciandomi a questo e al ruolo della scuola, la mia prossima domanda è: come si può, secondo voi, aggirare oggi questa rimozione e promuovere il riconoscimento dell’importanza del ruolo delle scrittrici, del portato fondamentale della loro voce nella definizione e ri-definizione della società e della cultura, e delle dinamiche di potere che sempre le informano? 

 

Maria Lucia: La scuola in primis, perché non è che tutti quelli che vanno a scuola, fino alle scuole superiori, poi continuano a studiare letteratura; e allora, la maggior parte di questi si convince che il canone è quello che viene insegnato a scuola e che le donne, fondamentalmente, non esistono in letteratura. Perché l’approfondimento ovviamente si fa all’università, noi abbiamo fatto l’università e abbiamo incrociato lì queste autrici. 

Giulia: All’università sì, ma poi lo abbiamo fatto anche di nostra sponte dato che, a quanto ricordo, nei programmi universitari molto spesso le autrici erano assenti. 

Silvia: Infatti, non solo chi dal liceo non prosegue con gli studi letterari-umanistici ma anche chi prosegue facendo studi umanistici, se non ha questo slancio personale, rimane al di fuori di questa questione: hai davanti tutti questi nomi di autori, che magari non hai approfondito direttamente ma di cui hai letto qualche brano e che magari ti hanno interessato, e allora poi ti vai a ricercare loro in autonomia e in indipendenza. Noi abbiamo avuto colleghi universitari che dichiaratamente dicevano che non leggevano le scrittrici perché leggevano Dostoevskij, come se una cosa escludesse l’altra, come se dicessero che se ci sono tanti scrittori da leggere che hanno fatto la storia della letteratura mondiale, allora non ha senso “perdere” il proprio tempo a leggere scrittrici. E si tratta di colleghi che, come noi, facevano corsi di letteratura, di lingua, di cultura.  

Giulia: Il tutto poi è molto legato, penso, a un pregiudizio, e cioè al fatto che al di là del fattore stilistico, per cui ci sono scrittrici brave – come Paola Masino, di cui noi recentemente abbiamo parlato e che secondo me è una delle scritture stilisticamente più belle del ’900 italiano –; secondo me grava ancora un fortissimo pregiudizio legato ai temi, e cioè la maternità, l’aborto, le relazioni familiari vengono ritenute automaticamente materie di serie B. Ora questo è stato l’anno glorioso dell’Evento di Annie Ernaux ma vorrei sapere poi, quanti uomini l’avranno letto, quanti vadano effettivamente a leggere questi libri nonostante la loro fama, quanta percentuale delle vendite sia composta di lettori uomini.  

Silvia: Nella nostra ultima newsletter, quella in cui abbiamo parlato del meme, abbiamo parlato di una ricerca citata dall’autrice di Invisible Women, Caroline Criado-Perez, una ricerca inglese sulle abitudini di lettura di un panel statistico e i risultati dicevano proprio questo: anche per quanto riguarda le scrittrici che sono nella top 10 delle vendite del periodo, tipo Atwood con i suoi romanzi o Ernaux (quindi nomi che sono dei bestseller), la maggior parte, ovvero più del 70% delle persone che hanno comprato questi libri, sono donne. Si tratta, quindi, di un successo ma di un successo non ancora del tutto canonizzato da quei lettori uomini che poi, alla fine, fanno la predominanza culturale di chi scrive le pagine culturali dei giornali, in Italia ma in generale e anche in altri contesti. 

Maria Lucia: A questo proposito vi invito a fare un giochino con la copertina di Robinson, la rubrica di Repubblica – che dovrebbe essere un giornale progressista – e cioè: contate i nomi di donne che ci sono sulla copertina di Robinson la domenica e vediamo quanti ne escono. 

Silvia: È ovvio che se io, giornalista che scrivo di cultura, leggo su 10 libri solo uno scritto da una donna, allora anche il dibattito diventa sterile, diventa povero, perché non c’è una comunicazione vera col grande pubblico. Il nostro è comunque un progetto di nicchia, noi cresciamo sì, soprattutto su Instagram ma ora che abbiamo più o meno 6 mila follower mi chiedo chi tra questi si sia ascoltato davvero il nostro podcast. 

Maria Lucia: Non facciamo ancora davvero la differenza e le nostre stesse statistiche sono tutte al 98 % di donne e al 2 % di uomini.  

Quali sono, secondo voi, i motivi della scarsa lettura di scrittrici da parte dei lettori uomini? E come si lega questa questione con l’etichetta, che troppo spesso viene sovraimposta ai libri scritti da donne, di “letteratura femminile” – come se questa non contenesse in sé alcuna aspirazione a parlare a tutti e si autorelegasse volontariamente allo status di discorsi fatti dalle donne per le donne? 

Maria Lucia: Noi abbiamo un problema con l’espressione “letteratura femminile”: letteratura femminile in che senso, solo perché è scritta da una donna? E allora i gialli di Agatha Christie sono letteratura femminile? E perché i suoi sono letteratura femminile e quelli di Simenon non sono letteratura maschile, chi l’ha deciso? A noi non piace l’etichetta. È chiaro che insistiamo sulle scrittrici donne, al punto da dedicarci 50 minuti di puntata di podcast, però il motivo è che sono persone che stanno nell’ombra e che noi cerchiamo di portare alla luce – ma non perché ci interessi la letteratura femminile, a noi della letteratura femminile non interessa niente. 

Silvia: Noi nasciamo come podcast, poi chiaramente abbiamo puntato anche un po’ più sulla comunicazione su Instagram, sulle Pillole – che ora dovremmo ricominciare a fare –, sulla newsletter e sulla newsletter in podcast; questo perché, per fare un episodio del podcast, studiamo tanto e leggiamo tanto – c’è proprio un lavoro di approfondimento molto lungo, ogni volta sembra quasi che dobbiamo scrivere una tesi – e allora ci siamo rese conto che il nostro ritmo di lavoro, di ricerca quasi universitaria non ci permetteva di essere al passo con la produzione forsennata di un contenuto podcast a settimana (che poi non è neanche quello che vogliamo fare, non vogliamo fare un programma radio ma un approfondimento che spinga i lettori e ascoltatori ad andarsi a comprare il libro per poi leggerselo da soli a casa). Per questo, abbiamo puntato anche su altri contenuti collaterali, in grado di permetterci di continuare il discorso e non interromperlo, non chiuderlo in un singolo episodio dei nostri podcast. Però, anche lì, come facciamo la scelta delle scrittrici? La facciamo in base al sentimento di noi tre nei confronti di quel libro, quando capiamo che c’è qualcosa su cui andare a scavare, o in base ai nostri studi, a ciò che già leggiamo abitualmente. 

Giulia: Per ritornare alla domanda, a riprova del fatto che questa etichetta è un ulteriore modo per relegare ai margini quello che tante donne hanno scritto, noi cerchiamo – soprattutto nel podcast ma in tutto ciò che facciamo, anche se il podcast in questo secondo me è sintomatico – di confutare questa cosa, spingendoci molto oltre un genere fisso: noi non abbiamo parlato mai solo di poetesse o letterate in senso classico ma anche di drammaturghe, di sceneggiatrici, di attiviste e cioè, di donne che comunque hanno lavorato con la scrittura ma nei modi più disparati; ciò a riprova del fatto che non si capisce cosa diavolo sia questa scrittura femminile, se la si può fare in tutti i campi. Quindi, come dicevano le ragazze, il senso per noi è che l’opera di queste autrici venga riconosciuta in quanto letteraria e basta, non perché chi l’ha scritta aveva determinati cromosomi.  

Maria Lucia: E poi il nostro sogno è che tutto il nostro lavoro, a un certo punto, diventi inutile; nel senso che arriveremo a un punto in cui non si dovrà star lì a spingere le scrittrici donne, perché non servirà più. 

Giulia: Anche perché in alcuni casi ci siamo rese conto che, anche quello che noi davamo un po’ per scontato non lo è: penso all’ultima puntata, a quella sulle sorelle Giussani, che hanno inventato Diabolik, che non è un personaggio marginale del fumetto di nicchia; anche lì, loro hanno avuto questa grande intuizione, l’hanno scritta, l’hanno portata avanti – a novembre tra l’altro saranno i 60 anni dalla creazione di Diabolik – ma ci siamo rese conto che non lo sapeva quasi nessuno. 

  

Ritornando alle politiche editoriali italiane, vorrei che mi parlaste di come queste sono cambiate negli ultimi anni rispetto alla pubblicazione e ripubblicazione di scrittrici trascurate e rimosse, facendo riferimento alle case editrici che hanno fatto di questa attività una vera e propria missione etico-politica. Ma vorrei sapere anche quanto grande è il lavoro che rimane da fare: essendo la percezione pubblica spesso falsata da ciò che va più in voga sui social e tra i giovani e le giovani, può sembrare che gli sforzi editoriali in materia di femminismo siano più o meno compiuti, sia a livello di rappresentanza femminile nei calendari editoriali che a livello di consapevolezza sulle tematiche femministe e di genere. Questo, però, è vero?

Maria Lucia: Rispondo prima alla seconda: il problema è che finisce che ci parliamo sempre tra di noi e cioè, uno pensa che il discorso sia universale e invece, è fatto sempre nello stesso circolino, nella stessa bolla. Di questo pure abbiamo parlato tanto, nel senso che se noi pensiamo che gente come Nadia Terranova o Claudia Durastanti siano delle rockstar, in realtà non lo sono; queste sono persone che ovviamente, nell’ambiente culturale italiano, hanno ormai un certo peso e per fortuna, ma fuori dalla nostra bolla, oggettivamente, chi è che sa che è uscito l’ultimo libro di Nadia Terranova? Chi è che sa chi è Nadia Terranova – per parlare di una persona che pubblica su Robinson e che dovrebbe essere conosciuta? Il problema è sempre quello: in realtà il circolo culturale è piuttosto asfittico, non ha molto interesse ad aprirsi; in realtà ci piace – e dico “ci” ma noi non c’entriamo niente col circolo culturale – ci piace tanto parlarci addosso e ci piace poco cercare il confronto al di fuori. E quindi, è chiaro che è molto difficile, c’è veramente tanto lavoro ancora da fare. Ma ci sono case editrici che noi nominiamo sempre e ormai sono tante, per fortuna, quelle che fanno un bel lavoro di recupero: alcune fanno solo questo, altre fanno questo e altro, per esempio appunto Fazi, che ha pubblicato Ramondino e altre ma non è che si occupa prioritariamente di scrittrici. Ma al di fuori di questo asfittico discorso culturale, Fazi riesce a sfondare con la ripubblicazione di Guerra di infanzia e di Spagna? Questo appunto bisogna chiederlo a loro, non a noi, perché pure noi soffriamo di questo bias di percezione: è vero che non siamo il circolino culturale ma siamo immediatamente adiacenti e quindi pure noi facciamo dei discorsi che più o meno riguardano il circolino culturale.

Giulia: Poi allo stesso tempo, e questa è una cosa che diciamo spesso, noi ci siamo buttate a capofitto senza saperlo dentro una nicchia, una nicchia che non sapevamo neanche che esistesse prima di cominciare a fare il podcast – che abbiamo sviluppato come progetto creativo per noi, perché veniamo da quell’ambito lì, quello audiovisivo, e volevamo provare a metterci alla prova con una creazione originale. E invece, ci siamo imbattute in questa attenzione, in questo riscontro che naturalmente è piccolo ma che sinceramente non ci aspettavamo, perché non avevamo minimamente fatto studi di mercato o altro. Abbiamo notato però che dal 2019, da quando abbiamo cominciato, c’è stata un pochino un’inflazione, nel senso che hanno proprio proliferato – e non so se anche il lockdown ha avuto un ruolo in questo – attivisti digitali e influencer; e pare che a livello di bolle non si parli d’altro che di problemi legati al femminismo e alle donne – e questa chiaramente è, appunto, una forzatura. Però allo stesso tempo questo tipo di movimento è stato notato anche da alcune major dell’editoria, che ci si sono un pochino buttate e spesso, secondo me, con poca onestà intellettuale – e infatti, recentemente abbiamo visto anche risultati che ci hanno lasciate un po’ perplesse, di uscite editoriali fini a se stesse, senza apparati critici, azioni funzionali che, capisco che alimentino il mercato ma che, per noi, hanno poco valore ai fini dell’allargamento di cui parlavamo prima. Quindi la scena è molto complessa, molto stratificata. 

Maria Lucia: Vorrei aggiungere una cosa a proposito di questa mancanza di apparato critico, e cioè che non è soltanto mancanza di apparato critico ma mancano proprio gli studi: tutte queste pubblicazioni non sono supportate né da studi critici né da un racconto ma vengono buttate nel mercato così, solo perché adesso c’è richiesta. 

Silvia: E anche molto indiscriminatamente: sembra che se si trova il libro di una donna che ha scritto un romanzetto alla fine dell’800 o all’inizio del ’900 che nessuno conosce, allora questo merita in ogni caso di essere pubblicato. E lo possono fare perché sono scaduti i diritti, quindi lo ripubblicano. 

Giulia: Soprattutto, poi si fa fare la prefazione a una scrittrice della bolla e quello, in fin dei conti,  è il motivo per cui il libro viene venduto. Però sono operazioni che per noi non creano alcun valore. 

Maria Lucia: Adesso sembra che ci sia tutto questo fermento culturale ma, se questa roba non viene supportata da studi, da un discorso critico e da tutto il resto, tra 10 anni saremo punto e da capo. 

Silvia: Infatti, è difficile che una Ramondino diventi un Italo Calvino fra 10 anni, proprio quanto a peso culturale e letterario: ad oggi se c’è una persona che non ha letto neanche una pagina di Calvino, questa comunque sa che Calvino è Calvino, cioè automaticamente lo posiziona molto in alto nella scala letteraria della cultura italiana. Fabrizia Ramondino io dubito, nonostante tutti gli sforzi di ripubblicazione che ci sono stati in quest’ultimo anno, dubito che fra 15 anni riuscirà ad arrivare a quel livello. Lo spero ma ne dubito fortemente, perché gli studi sono ancora bloccati, sono ancora fermi. 

Per finire con una nota positiva, volete parlami di case editrici che, secondo voi, si dedicano al lavoro di ripubblicazione delle scrittrici con consapevolezza, facendone un’azione programmatica destinata a durare?

Maria Lucia: Noi stiamo collaboriamo con Rina, e lei – ndr Michela Dentamaro, l’editrice – va tutti i giorni fisicamente a studiare e questa è già una cosa particolare. 

Silvia: Abbiamo avuto modo di conoscere la realtà di Rina da dentro, fra virgolette, a dicembre dell’anno scorso, e ci ha colpito il fatto che il suo approccio a questo tipo di ricerca non sia sfornare 10 libri a settimana – anche perché è una casa editrice super indipendente, molto piccola – ma ha un approccio come il nostro, e cioè lento – noi lo diciamo sempre che siamo uno slow project, non andiamo di corsa. Soprattutto, vista la nostra collaborazione, abbiamo organizzato insieme a Rina una presentazione alle Biblioteche di Roma in occasione dell’8 marzo, quindi, abbiamo avuto modo di conoscere un po’ meglio lei e il suo progetto: è una ragazza che come noi studia, che è formata per fare quello, non è improvvisata e, soprattutto, ha un’idea di quali autrici pubblicare e perché pubblicarle, non è che va a pescare tutte quelle di cui sono scaduti i diritti e le ripubblica in serie. C’è un progetto culturale diciamo, abbastanza affine al nostro.

Maria Lucia: Poi noi siamo in comunicazione con alcune altre case editrici, che magari non fanno prioritariamente quello ma hanno tante autrici interessanti in catalogo, ad esempio Nottetempo, Cliquot, Manni (che ha dato un apporto sostanziale per le puntate sulle partigiane), Fazi. E poi Tamu, che è di Napoli e con cui speriamo di poter collaborare a breve. 

Silvia: Tamu è un'altra realtà che ci piace molto, sono molto bravi e hanno anche loro un’idea editoriale abbastanza forte, che ci convince. Tra l’altro fanno dei volumi curatissimi, dei bei prodotti e, soprattutto, si vede che anche loro, nonostante siano piccoli, hanno voglia di impegnarsi e di provare a comunicare il loro discorso. Sono un po’ più orientati sugli studi orientali, sulla marginalizzazione degli afroamericani ma anche sugli studi di genere e, quindi, su tutta una serie di tematiche che anche a noi sono molto care. Insomma, siamo contente perché Mis(S)conosciute ci sta permettendo di entrare davvero in contatto con realtà editoriali di valore: e anche solo nel momento in cui si riesce a instaurare un dialogo con gli editori, si capisce subito se quella persona ha un progetto vero, sostanziale e non puramente e solamente di mercato. 

C’è qualcosa che vorreste aggiungere su Mis(S)conosciute?

Maria Lucia: Noi ovviamente stiamo continuando a lavorare, l’ultima puntata è uscita il 25 aprile, adesso dobbiamo far uscire la newsletter – anche audio come al solito – e quindi, abbiamo un po’ di cose da fare. C’è anche il Salone del Libro, e dopo avremo un workshop a Reggio Emilia, con questa attività che finora avevamo fatto soltanto coi ragazzi e che, adesso, cerchiamo di fare con gli adulti. Abbiamo in corso anche una collaborazione con una scuola di Meda, quindi abbiamo un po’ di cose in pentola, per fortuna!