Se per Simone de Beauvoir la femminilità era ed è una trappola, una trappola non dissimile ci appare, oggi, quella che comunemente viene indicata sotto il nome di “scrittura femminile”. Con scrittura femminile si intende, per lo più, quel gigante vaso di Pandora in cui si trovano immerse le più diverse produzioni letterarie di autrici, poetesse, scrittrici più o meno dimenticate; un vaso capace, una volta scoperchiato, di far vedere cose mai viste e di restituire alla lettura parole impensate, impreviste, incatalogabili sotto un’etichetta unica, sostanzialmente mobili e in diffrazione. Un vaso unico, un termine che faccia da contenitore unitario per una pluralità radicale di voci e stili, di immagini e forme, non potrebbe che figurare, allora, come un controsenso: perché la scrittura femminile è in realtà tante scritture, e queste scritture sono niente di più e niente di meno che atti – teorici ma soprattutto pratici – portati avanti da donne diverse, sotto la spinta di motivazioni diverse, a partire da luoghi e posizionamenti diversi. Se è bene riconoscere, tuttavia, genealogie e parentele tra scrittrici e poetesse che si sono ritrovate ad essere socializzate in maniere simili, entro costruzioni socio-culturali comuni e trasversalmente marginalizzanti, quando non oppressive, quello che non funziona è la pacificazione relativa con cui, oggi, ci si riferisce alla scrittura femminile come a un qualcosa di ormai dato per assodato, di collettivamente validato e di facilmente riassumibile sotto l’insegna, ogni volta, di quella o quell’altra voce di scrittrice famosissima – si guardi al caso di Elena Ferrante – che starebbe a rappresentare la scrittura delle donne tutte. Ma le voci e le scritture di donne, come già detto, sono tante; e sono presenze, come ci dice Virginia Woolf, che continuamente stanno lì, negli interstizi della storia letteraria, a chiederci la possibilità, insieme alla legittimazione, di esistere e di essere vive.
Quel che allora si può fare, quel che c’è da fare, è restituire queste voci e controvoci al mondo come in una partitura, che sia capace di rendere conto della pluralità come di un prisma dalle innumerevoli facce e che, al contempo, faccia stare queste facce insieme, a parlarsi, a dialogare e a risuonare l’una sulle note dell’altra. In un panorama editoriale in cui le autrici, come nel summenzionato vaso, stanno disperse e spesso a latere di cataloghi generalisti a prevalenza maschile, la casa editrice Rina edizioni fa, invece, proprio questo: fa stare le autrici insieme, una accanto all’altra, e in questo stare insieme dà a ognuna la possibilità di emergere con la voce sua propria, con lo stile suo proprio, nel genere suo proprio – in una complessità di scritture che è il miglior specchio che abbiamo di una letteratura, contro-canonica e alternativa, verso cui rimaniamo ancora e sempre in debito.
Qui di sotto l’intervista a Michela Dentamaro, editrice di Rina edizioni, con cui ho avuto la meravigliosa opportunità di dialogare durante l’ultimo Salone Internazionale del Libro di Torino.
Partendo dall’origine, vorrei sapere da cosa è scaturita l’idea di Rina edizioni, e se il progetto di pubblicare esclusivamente autrici donne, dimenticate e non più in catalogo, cercando di rendere conto della possibilità di un altro canone letterario, sia stato sin da subito essenziale alla costituzione della casa editrice.
La casa editrice è nata in un modo un po’ incosciente: io non avevo granché idea di come darle vita, anche se in quel periodo lavoravo in una casa editrice. L’idea mi è nata perché, in quel periodo, stavo lavorando a un libro che, successivamente, mi è stato di ispirazione: un reportage di una giornalista americana che era andata in Russia durante lo scoppio della Rivoluzione. Da lì ho cominciato a farmi delle domande, e a cercare di capire se autrici italiane contemporanee a quel periodo lì fossero in realtà ancora presenti nel panorama odierno. In seguito, ho cominciato a scoprire tutto un universo sommerso che sarebbe stato interessante riscoprire; per cui sì, l’idea di ripubblicare solo donne è stata alla base della fondazione della casa editrice.
Come avviene la scelta del libro da ripubblicare? E come funziona poi il processo della ripubblicazione? Penso al lavoro di ricerca filologica, alla sistemazione dell’edizione, al contatto con gli eredi, e mi chiedo anche se tu faccia tutto da sola o se tu sia supportata da collaboratrici e collaboratori.
Da principio, la casa editrice è nata solamente con la collana delle italiane, e ci ho messo un paio d’anni per cercare di farmi una mappa delle autrici da ripubblicare. Dal momento in cui ho cominciato a fare una ricerca sulle scrittrici a cavallo tra Ottocento e Novecento, e poi sulle scrittrici fino agli anni Trenta del Novecento, ho preso ad imbattermi in alcuni nomi e, da lì in poi, sono riuscita a reperire le edizioni originali. Inoltre, andavo in biblioteca e cercavo di fare lavoro d’archivio, e piano piano mi sono messa a immaginare un catalogo. Soprattutto, sono stata fin da subito dell'idea che volevo pubblicare un solo libro per scrittrice, senza cominciare a fare un recupero di tutta l’opera di ognuna, perché ce ne sono talmente tante che sarebbe impossibile farlo e mi piacerebbe dare una visione d’insieme di quello che era il panorama di scritture di quegli anni.
All’inizio i primi titoli erano di scrittrici fuori diritti, quindi è stato più semplice, poi pian piano ho cominciato ad adocchiare invece autrici sotto diritti, e lì dipende: o ci sono gli eredi o devi risalire alla casa editrice che detiene i diritti — per Gianna Manzini, ad esempio, è stato così, ho contattato Mondadori e Mondadori mi ha concesso i diritti perché loro in realtà ce l’avevano in catalogo. Per Paola Masino invece c’è un erede e, in quel caso, mi sono proposta direttamente a lui; quindi dipende un po’ da quali sono le situazioni, sicuramente non è facile perché, e questo succede anche per le scrittrici straniere, è difficile convincere un erede a pensare che tu sia l’editore giusto per pubblicare quell’autrice lì — perché molto spesso non si rendono neanche bene conto di quello che hanno tra le mani — e anche quello, insomma, è un lavoro che richiede uno sforzo.
Per le straniere invece ho dell’aiuto: c’è un direttore di collana, che è Luciano Funetta. Lui dirige la collana e mi fa proposte di titoli o li scegliamo insieme; tra noi c’è un lavoro di scambio, ma è lui che si occupa di fare le proposte e di contattare eventuali traduttori. A volte succede anche che sia la traduttrice che mi propone il libro da pubblicare per la collana delle straniere. Quindi dipende anche un po’ da quello che è il libro, o da quello che è l’autrice (se è già stata pubblicata o meno, ad esempio), ma anche dal momento che sta vivendo la casa editrice: per questa collana ora abbiamo già due argentine, quindi l’idea adesso sarebbe quella di spaziare verso altro e recuperare da altre lingue e altri paesi. Quindi, tendenzialmente, per quanto riguarda questa collana ho dell’aiuto, poi però per il resto faccio io.
Con Rina edizioni hai dato vita a un progetto che risponde a un’urgenza: quella di vedere ripubblicate scrittrici dimenticate e soprattutto di vederle ripubblicate in una cornice unitaria e coerente, quella di due collane dedicate esclusivamente a loro; vorrei che mi parlassi di queste due collane — Libertarie, dedicata alle scrittrici italiane, e Agua viva, dedicata alle scrittrici straniere — e di come si compenetrino a vicenda in un progetto che a me sembra estremamente trasversale, volto a rendere conto di voci difformi ma armonizzate nella loro complessità.
La trasversalità non è solo geografica o linguistica ma c’è anche all’interno di una stessa collana: ci sono profili completamente diversi che possono anche entrare in contrasto tra loro, e in realtà l’intento è proprio quello di restituire un’eredità, di mantenere quella memoria che dovremmo recuperare e che c’è, perché è stata fatta da queste scrittrici anche solo per il fatto che si siano esposte in quel modo lì, attraverso la scrittura. A me piace sinceramente tirare fuori i libri più strani e divergenti, che apparentemente sembrano non c’entrare niente l’uno con l’altro, ma in realtà poi è tutto molto equilibrato e si compensa bene. Un esempio banalissimo: prima si è avvicinata una ragazza che mi ha detto che pensa sia bellissimo che abbiamo presentato qui al Salone Carolina Invernizzo, e mi ha chiesto se avessimo altri suoi libri, ma io le ho risposto di no; allora lei mi ha chiesto se avessimo altri gialli tra le italiane e io le ho risposto ancora una volta di no, ma che, tuttavia, abbiamo un altro giallo tra le straniere. Quindi anche solo per genere, banalmente, ci sono scrittrici molto diverse per quanto riguarda stile e approccio letterario; però sono veramente tutte personalità molto forti, sia le italiane sia le straniere, e forse è anche questo che le accomuna in qualche modo, il fatto che siano uniche.
Mi sembra bello, perché il tuo progetto è volto a ripensare un canone tramite la costruzione di un contro-canone. Tuttavia, a volte parlando di scrittura femminile si tende a banalizzare e anche a mettere tutto in un unico calderone, quando poi le scritture sono tutte molto diverse.
Infatti, prima parlavo con un’insegnante che mi ha detto che, nell’ambito scolastico, in realtà c’è molta fame di originalità, di scritture diverse e, anzi, sarebbe molto bello, forse anche più del presentare il libro fine a se stesso, il portarlo da altre parti e cercare di seminare qualcosa. Ci vorrebbe un dialogo tra editoria, scuola e Accademia, perché siamo tutti un po’ rigidi quando invece, appunto, come diceva quell’insegnante, questi libri possono essere strumenti utili a tutti e tutte.
Un esempio concreto di come il tuo progetto editoriale sia estremamente virtuoso a mio avviso sono le raccolte di racconti: sia quelle dei racconti di un’autrice singola, come Paola Masino, che quelle di racconti di diverse autrici riunite sotto l’insegna di un tema e di un’appartenenza storica comune, come Le affatturate. Questo processo di ricognizione e raccolta dà la misura di un grande lavoro di ricerca e di un intento forte di ricontestualizzare gli scritti delle autrici, e vorrei sapere quanto si riveli poi sostenibile, soprattutto dato il pregiudizio dell’editoria rispetto ai racconti.
Secondo me è sostenibile. Magari Le affatturate è un po’ più difficile che arrivi, nonostante la tematica accessibile, però una raccolta di racconti che è andata molto molto bene, per esempio, è quella di Paola Masino, che è stata quasi inaspettatamente un successo: lo stesso erede mi aveva detto che ero coraggiosa, perché si tratta di un’autrice comunque molto difficile, e invece ha fatto breccia in tantissimi cuori. Le affatturate in realtà è un lavoro a cui mi sono dedicata tantissimo, è stato abbastanza lungo, ma è un lavoro che forse meriterebbe di essere spiegato meglio, perché quello che secondo me intimorisce un po’ è il fatto che tanti nomi di scrittrici sconosciute sostino insieme. Quando invece appunto c’è una modernità incredibile, che è quello che cerco di fare. La scelta sta anche molto nel trovare quel libro che possa essere calato in un contesto di vita, sociale o politico, odierno, e cercare di creare quel ponte tra quel passato e l’oggi. Forse il punto su cui dovremmo lavorare un po’ di più è la comunicazione, infatti quello è il mio prossimo obiettivo. C’è anche il discorso che verte sul cercare di portare questo progetto non solo nelle scuole e nelle università, ma soprattutto tra le persone, cercando di far capire che tipo di progetto si stia portando avanti. E poi appunto, più che costruirsi un’identità, che in realtà è già costruita, tutto questo potenziale bisogna cercare di comunicarlo, di farlo arrivare immediatamente.
Vorrei chiederti, per finire, quanto si sta rivelando sostenibile il progetto in generale, e se di fronte al riscontro di un interesse diffuso nel presente verso le scrittrici, da parte degli editori e da parte di lettrici e lettori, ti sembra che ci sia poi una volontà forte di far perdurare questo interesse nel tempo, e di rendere conto veramente del valore delle scritture delle donne e di un ripensamento del canone letterario.
Io sinceramente su alcune cose sono un po’ disillusa, purtroppo mi sembra che ci sia un po’ una moda e fintanto che viene cavalcata va bene, poi però fondamentalmente non cambia niente. Per questo dicevo che bisognerebbe cercare di penetrare in un tessuto sociale che sia diverso, e cercare poi di fissare questi nuovi concetti. La domanda che io mi sono ritrovata a fare in un momento di incontro anche con varie scrittrici, durante Inquiete, è stata proprio questa: ma noi stiamo facendo abbastanza? Perché quello che io sto vedendo da questo progetto è che un cambiamento reale — anche se questo può avere bisogno di tempi lunghi per manifestarsi —ancora non c’è, perché comunque c’è sempre una diffidenza nell’avvicinarsi alle scrittrici. Anche a scuola le scrittrici sono sempre e ancora messe a margine, e se un’insegnante ti dice che la scuola ha bisogno di altri strumenti, che i libri di testo non sono sufficienti, vuol dire che quello che stiamo facendo non è sufficiente e che probabilmente dovremmo cercare di spostare un po’ di più la prospettiva; non tanto quindi per seguire la moda —- che va bene, uno deve certamente sostenersi— ma per sostentarsi e, al contempo, lavorare costantemente su altri livelli. Io credo molto in questo: è necessario uscire un po’ da questa bolla, da questo ambiente chiuso e cercare di portare tutto questo da altre parti, perché è quello che serve.