Genealogie inquiete 

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    Nel cominciare a scrivere questo articolo di restituzione del festival di scrittrici inQuiete, la mia mente non può che ritornare a quella stanza tutta per sé di cui parlava la più grande scrittrice del Novecento inglese – nonché mia personale (per quanto banalissima) fissazione letterario-filosofica di questi ultimi mesi. A Room of One’s Own: uno spazio in cui poter vivere e creare liberamente, un luogo fisico che valga da involucro protettivo per una mente bisognosa di pensare, immaginare, scrivere. O, come nel caso di inQuiete, un cinema dismesso ed eccezionalmente rianimato, una libreria di quartiere indefessamente riempita, il giardino appartato di una biblioteca amica: in questi luoghi (amati) il festival di scrittrici del Pigneto ha messo le sue radici e posto le condizioni affinché, come auspicato da Virginia Woolf, le donne possano scrivere ciò che desiderano scrivere, parlare di ciò che hanno scritto, dialogare di ciò che sta loro a cuore, affermare le loro idee e i loro posizionamenti, incontrarsi e maturare insieme battaglie e ideali comuni. 

    Nei due weekend in cui si è svolto il festival, gli incontri letterari e artistici sono stati talmente tanti, e talmente tanto frequentati, da riuscire nello straordinario e faticosissimo compito di diffondere una speranza che, specialmente in questi ultimi dissestati tempi, è sembrata più che facile a morire. Si è infatti parlato, letto, poetato di pace, di resistenza, di intersezionalità come antidoto, di amore, cura e relazionalità, di ritratti di signore eccentriche e di vite meravigliose, di voci esemplari nella loro inquietudine e irrequietezza. Perché inQuiete significa non solo mantenersi vigili e mosse in un mondo che vorrebbe se stesso come inamovibile nelle sue gerarchie di valore, e quindi farsi irrequiete, dissenzienti e rivoluzionarie; significa anche e soprattutto stare nella vita, della vita abbracciare l’inquietudine e riuscire a farne esperienza di quiete, accettando e anzi gioendo delle contraddizioni, delle sfumature ineffabili tra realtà e finzione, della narrazione artistica come forma di decostruzione e ricostruzione di sempre nuove realtà, di sempre nuove possibilità e identità da scoprire e inventare. E quindi un coacervo di vita, di desiderio, di volontà di esprimere una differenza che è anche sempre richiamo, stimolo a stare insieme e agire in nome di una costellazione fluida ma unita, divergente ma compatta: inQuiete ha riaffermato così, come nelle parole delle sue organizzatrici (Barbara Leda Kenny, Francesca Mancini, Barbara Piccolo, Maddalena Vianello) la necessità di «una svolta femminista che rimetta al centro le donne, i loro talenti, le loro esigenze, le loro visioni, i loro corpi e soprattutto i loro diritti», e quindi la necessità, oggi più di prima, del festival stesso come luogo di libertà collettiva rivendicata e tramandata sempre nuovamente. Contro l’onda preoccupante di un conservatorismo imperversante, contro una guerra terribile e contro la discriminazione di tutte le donne, a partire da quelle iraniane e curde, inQuiete si fa faro contro la tempesta e lo fa dando voce alle poete e alle scrittrici del passato, quasi senza eccezione sconosciute o dimenticate, tramite la voce delle scrittrici e delle poete di oggi: artiste come Teresa Ciabatti, Giulia Caminito, Maria Grazia Calandrone, Nadia Fusini, Espérance Hakuzwimana, sono state chiamate a condividere le loro esperienza di vita e di lettura, i loro incontri privilegiati con “madri” artistiche eccezionali, la loro infaticabilità nel ricostruire una genealogia comune alle donne, seppur tuttora invisibile. 

    Ed è proprio “genealogia” la parola chiave dell’edizione di quest’anno: è ancora Virginia Woolf, come ha ricordato la giornalista Silvia Neonato al gremito incontro del 15 ottobre sulle genealogie e la storia delle scrittrici, a invitarci a «visitare il passato cercando le nostre madri», e quindi a farci carico di un’operazione cominciata dalla generazione delle donne degli anni Settanta per uscire «dalla faglia del margine, dalla fessura in cui eri rinchiusa come scrittrice a causa di quel canone occidentale che ci ha pesato come un macigno». Perché l’invisibilizzazione dei soggetti che si vogliono marginali comincia dalla distruzione della loro storia, dall’imposizione, nella percezione, dell’immagine di una tabula rasa storica e artistica da cui si è costrette a cominciare e che, da sole, è estremamente più difficile riempire o smantellare. Partire da sé significa allora, per la creazione artistica femminile e femminista, ricercare le radici della propria scrittura in una scrittura antecedente, che possa parlarci realmente e nel cui orizzonte ci si possa inserire con la sicurezza di chi sa di appartenere a una famiglia elettiva, a una comunità umana che sappia farsi rete e riparo. Così come ha affermato la scrittrice Giulia Caminito, per la quale il lavoro di riscoperta è partito dalla compilazione di una bibliografia che, dalla A alla Z, le permettesse di registrare tutti i nomi di scrittrici donne italiane presenti in Biblioteca Nazionale per poi andarne a scoprire le scritture e le storie personali, «il lavoro genealogico è quello che ricostruisce le varie generazioni che si sono succedute all’interno della stessa famiglia; e nella ricostruzione delle genealogie si scopre che tante genealogie si fondono, che una famiglia entra nell’altra, che si crea un enorme albero genealogico che ci riguarda». Ricercando, documentando, leggendo i libri di autrici dimenticate, si può ritrovare non solo la propria storia, la storia delle proprie madri e sorelle, ma una storia alternativa che vale in se stessa e per tutti come la possibilità, intergenerazionale e transtorica, che si dia altro: che si dia il nuovo e il diverso, e che questo nuovo e diverso vengano a costituire un oltre-canone dal valore identitario – e oltre-identitario – irrinunciabile. 

    Un oltre-canone, quindi, fatto di libri la cui disponibilità va sempre rimessa in circolo e sostenuta con politiche scolastiche che mirino, con consapevolezza, a mantenere vivo un patrimonio di voci e prospettive differenti: questo l’auspicio fondamentale di inQuiete, questo il sottofondo rumoroso degli incontri del festival, dai versi di pace e di guerra delle poete post-coloniali alle letture dall’opera di Patrizia Cavalli, Letteria Montorio e Maria Bellonci. Un appello a ricostruire genealogie e a tenerle in piedi: affinché, come affermato dall’organizzatrice e critica letteraria Sara De Simone dal palco del meraviglioso Cinema Avorio, «le scrittrici vengano studiate davvero, e non tirate dal cappello tramite ripubblicazioni casuali»; affinché, alla larga da facili operazioni di marketing e pinkwashing, vengano create quante più stanze in cui le loro lettere possano farsi finalmente corpi, ingombranti e immancabilmente visibili per le generazioni a venire.