“Tutta intera”: intervista a Espérance Hakuzwimana

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La protagonista del romanzo d'esordio di Espérance Hakuzwimana – Tutta intera, edito da Einaudi – è una bambina di nome Sara che, durante le grandi pulizie, osserva la bottiglia bianca della candeggina, sperando che arrivi il suo turno e che, prima o poi, il liquido miracoloso cada su di lei  e, come l’acqua piovana, lavi le sue macchie, rendendola finalmente pulita e uguale al mondo che la circonda.

È una ragazza che, durante le vacanze estive, fa uso di una quantità straordinaria di crema solare perché non può permettersi di diventare più nera di quello che è. È una compagna di classe che riceve dai suoi coetanei e dalle sue coetanee commenti sulla sua pelle, sulla sua faccia, sul fatto che lei non è come tutti gli altri. Sul fatto che lei è diversa.

È una donna, che, decisa a maturare una maggiore indipendenza rispetto al clima famigliare, il più delle volte, sa essere fagocitante e depersonalizzante: va a vivere da sola, e, dopo aver lasciato lo studio, trova lavoro come assistente per i corsi pomeridiani di potenziamento di ragazzi e ragazze che vivono dall’altra parte del fiume, a Basilici. 

Una delle prime cose che viene descritta e spiegata all’interno del tuo libro è la geografia di questa città tagliata, chiaramente ed emblematicamente, a metà dal fiume Sele. Da una parte, c’è la zona ricca di Bellafonte, dall’altra la parte più povera e periferica di Basilici. Dunque, questa geografia fisica-territoriale rispecchia una netta separazione socio-economica. Ma se Sara non riesce a trovare sé stessa nella metà più benestante di Bellafonte, non viene neanche riconosciuta come pari dalla parte più periferica, abitata, per lo più, da una popolazione emigrata. Come un ragazzo che conoscerà nella scuola a Basilici, Sara è una midì, sta a metà tra due mondi, ma proprio quest’ambiguità dell’esistenza la rende inquieta. Sara è destinata a rimanere in bilico tra queste due terre o è nel fiume che può trovare la sua casa? Fuor di metafora, per essere liberi bisogna essere come i fiumi che non hanno radici? Quanto pesano le radici nel processo di creazione di una propria vita indipendente? 

Quando ho pensato a questa storia volevo che lo spazio, il luogo dovessero essere un protagonista esattamente come gli esseri umani che portano le loro voci e storie. La provincia, la periferia, i margini segnati da confini che non stanno sulle cartine, da limiti mentali sono sempre stati i posti in cui ho sentito e ho percepito la vita vibrare, essere nella sua essenza. 

Sara è una midi, sta nel mezzo, nel punto esatto in cui il giorno diventa notte. Un frammento di tempo che è fatto di tutto e niente e proprio per questo porta confusione, distrazione, domande. Sara è piena di domande, Sara di sé non sa niente se non ciò che le hanno narrato, imposto e messo in bocca, in testa per proteggerla. Eppure è una conoscenza che non basta, perché il mondo oltre i confini, al di là dei muri ha sempre qualcosa di nuovo da dirci, da mostrarci soprattutto su di noi.

Io non lo so se Sara si libererà, non so neanche cosa ne fa delle sue origini che non ho narrato apposta. Per me era importante riuscire a fermare il frangente esatto in cui tutte le convinzioni crollano, in cui tutto ciò in cui lei crede diventa una bugia, una frana e lei deve confrontarsi con nuove domande e nuove paure. 

In tutto il libro, ricorre l’immagine della pesca. Lo zio di Sara, fratello del padre Giacinto, è proprietario del frutteto di peschi che dà lavoro agli abitanti della città. Ritorna, spesso, inoltre, il concetto di interezza – la pesca tutta intera e non a spicchi – e anche il concetto dei pezzi. Sara, che guarda sempre sua madre, perché non vuole perdersi pezzi di lei, Sara che si sente decomposta, spezzata. Com’è nato il titolo, Tutta intera? E come possono fiorire gli innesti falliti, le radici recise? Ma non è ogni uomo un innesto fallito dal momento che la vita umana implica e comporta, inevitabilmente, il fallimento? 

L’immagine della pesca è presentissima nel testo. All’inizio è un’immagine delicata, mitologica piena di purezza negli occhi di Sara, più si va avanti nel testo più il frutto e la metafora diventano ridondanti e appiccicosi, asfissianti quasi. Mi piaceva l’idea di accompagnare la crescita di questo bisogno di interezza della protagonista anche con il cambiamento del ruolo di questo frutto così importante. 

Il titolo Tutta intera nasce dall’unico sguardo possibile che io ho voluto dare per raccontare la storia di una persona adottata, nera e italiana: un’esistenza fatta di tanti pezzi, di tante stratificazioni ognuna legata a una battaglia, a un conflitto interiore e alle miriadi di domande che chi nella sua storia ha un background migratorio si porta con sé. Raccontarsi, ritrovarsi nelle storie scritte, nei film, nelle riviste è un modo potentissimo per guardare in faccia ciò che si è, riconoscere la storia a cui si appartiene. Probabilmente le radici non si riparano del tutto; ci vuole un buon terreno, dell’acqua buona, una cura costante dal mondo circostante e forse anche, come dici tu, l’accettazione del fallimento: una costante umana inevitabile che ci appartiene. Una realtà che non si può sconfiggere, ma imparare a conviverci, forse, ci può dare punti di vista differenti.

Sara non è mai stata solo il suo nome. Sara è stata il più delle volte Saranostra, come erano soliti chiamarla i membri della sua famiglia, quasi a marcare un possesso su quella figlia che avevano adottato. Sara è stata figlia di Giacinto Righetti, nipote di Roberto Righetti, figlia di Giuliana la cuoca dell’asilo. È possibile, da figlia, scambiare tutto questo possesso come amore? E da genitore, come si può amare una figlia, dimostrandole questo amore ma lasciandole, però, la sua libertà? 

Io sono solo una figlia, al massimo madre di me stessa e dei libri che ho scritto. Non penso di poter dare così tanti consigli sulla genitorialità; ma da figlia di quattro genitori sulle carte e di molti altri trovati lungo il percorso se c’è una cosa che ho capito, una sola, è che l’amore non basta. Non basta l’amore di Giacinto e Giuliana che riempiono Sara di riti, di attenzioni, cure e  parole. Non basta perché è privo di risposte, carico di silenzi che spesso sono causati dall’ignoranza, dall’incapacità di rispondere alle discriminazioni che la loro bambina nera e adottata riceve nella quotidianità in cui è apparentemente protetta. I figli desiderano solo l’amore dei genitori, ne hanno bisogno per sentirsi al sicuro, per costruire la propria autostima, per sentirsi parte di un ambiente che li salvaguardi dal mondo esterno. Solo da grandi, dall’adolescenza in poi, realizzano e reagiscono a un certo tipo di amore possessivo ribellandosi, cercando i propri spazi. Chi vive l’esperienza dell’adozione – e quindi il trauma dell’abbandono, del lutto, dello stravolgimento delle proprie abitudini come lingua, comunità, paese se si tratta di adozione internazionale – alla ricerca della propria identità e al distaccamento dai propri genitori come ogni persona, unisce anche la sfida e il conflitto costante dell’appartenenza, della convivenza con i traumi e la paura di non essere abbastanza amato e/o amabile. Tutte condizioni che possono mettere in atto un groviglio umano identitario non di poco conto.

Dolorosa e sincera è la riflessione di Sara: per lei il gioco di somiglianze tra genitori e figli non esiste. Non può esistere. Lei non è uscita dal ventre di sua madre, sua madre non le ha dato il suo latte, non è stata lei a nutrirla nei primi mesi di vita. “Come può, dunque, chiamare” – si chiede Sara – “una donna a cui non sono appartenuta?” In tutto quest’incertezza, però, Sara ha bisogno di trovare un punto di sicurezza nella madre, un qualcosa che le appartenga e la faccia sentire figlia di quella madre. Quanto è importante quel dente d’oro che Sara ricerca sempre nel sorriso materno? 

È tutto quello che ha a disposizione per potersi aggrappare a qualcosa di tangibile, reale, visibile. Per questo diventa quasi un’ossessione. Deve assicurarsi che ci sia, che sia sempre lì per lei. Se cresci chiedendoti “A chi assomiglio?” sapendo che non potrai mai avere una risposta, il buco che ti si forma in testa o in pancia, da qualcosa deve essere riempito prima o poi. Anche se è qualcosa di fasullo, di posticcio. Il bisogno è così forte, a volte, che supera anche il possibile. 

Ambigua è la relazione di Sara con la figura paterna, che ama molto sua figlia ma che, nonostante questo amore, o forse proprio a causa di un eccesso di amore, la riempie tutta di sé stesso. Ciò che Giacinto Righetti, professore al Liceo Classico, può pensare delle azioni che Sara compie durante la sua vita è sempre presente nei pensieri della figlia. Cosa direbbe mio padre? Cosa farebbe lui al mio posto? Tuttavia, il padre non ha saputo spiegare alla figlia tutte quelle cose che le venivano dette e che lei non era ancora in grado di capire. Una bambina nera che torna a casa piangendo perché un compagno l’ha definita “africana”, non trova comprensione in due genitori che non hanno avuto gli stessi problemi. Come porsi allora da genitori? Come dimostrare a questi la propria comprensione? Quanto parlare delle cose, nominarle, porta una figlia a sviluppare una maggiore consapevolizzazione della propria identità? 

Non c’è una soluzione che si può esporre in una risposta sola. Io ho raccontato una storia ambientata all’inizio degli anni ’90, quando gli strumenti a disposizione erano completamente diversi da quelli di ora. I genitori che oggi entrano nel percorso delle adozioni internazionali e interrazziali hanno a disposizione testimonianze, saggi, film, serie tv e vite concrete che possono aiutarli a stare in guardia, in allerta rispetto agli errori che potrebbero compiere. Giacinto e Giuliana hanno l’amore nei confronti di Sara ma non hanno conoscenza, non sanno leggere il razzismo malcelato e non di una provincia medio-borghese che aleggia in ogni strada e quartiere di Bellafonte. Non sapendolo leggere, non hanno parole a disposizione per rispondere alle domande di Sara.

I genitori bianchi di questo presente, di questa Italia, hanno a disposizione una preparazione ampia, sfaccettata e costante. Ma, nonostante questa, devono anche rendersi conto che i figli non si possono difendere da tutto – anche se si vorrebbe – soprattutto non si possono salvaguardare da un’Italia come quella del 2022 che è spaventosamente arretrata e stantia nei confronti di istanze, battaglie, diritti mancanti e discriminazioni che vedono come protagonisti ragazze e ragazzi, bambine e bambini di origine straniera.

Una volta approdata nell’aula sotterranea che ospita le lezioni pomeridiane tenute da Sara, la giovane sente il bisogno di imporre su questa gioventù di Basilici il suo sapere. Più volte cerca di convincerli a leggere i libri che lei ha letto, a insegnare loro le nozioni che lei ha imparato. Quanto è forte il pregiudizio di chi, forte della sembianza del colonizzatore, impone la propria cultura a chi una cultura ce l’ha già? Penso al fatto che Sara porta le sue matite, pensando che loro non ce l’abbiano… 

Ah sì! La cosa che mi interessava maggiormente era dimostrare al lettore quanto sia intrinseco in noi il desiderio di portare la cultura a chi riteniamo inferiore rispetto a noi, anche se apparentemente lo trattiamo come nostro pari e diciamo di non vedere le differenze, i colori. Sara per me è stata un’espediente utile – se così possiamo dire – per narrare quello che viene chiamato il “white savior complex”, il complesso del salvatore bianco. Il bisogno di mostrare questa nostra superiorità basato sull’educazione eurocentrica in cui tutte e tutti siamo cresciuti in questo Occidente. 

Il suo approccio con questa classe di ragazzini è esattamente questo, perché non è il colore della pelle che fa di noi una persona bianca ma è l’educazione, le convinzioni, la cultura in cui cresciamo. Sara cresce con un padre che le dice che può fare tutto, soprattutto grazie alla cultura, ai libri, alle parole e lei entra in classe fiera, orgogliosa, sicura di sé. Se li immagina pronti a pendere dalle sue labbra ma queste vite dall’altra parte del fiume sono strafottenti, hanno altre priorità, si tengono strette le loro storie e così la spiazzano e la mandano fuori strada. Mi sembrava un bel modo, onesto e tosto, per spiegare che non tutto sta nella cultura, soprattutto non quella che crediamo noi come l’unica possibile.

“Ormai hai ventitré anni: non sono pochi”, continua pa’.                                                                  

“Stai perdendo tempo prezioso. Capisci cosa vuoi e fai in modo di ottenerlo!”.                     

“Prima voglio capire chi sono”.                                                                                                     

“Capiscilo in fretta perché non ci sarò per sempre”. 

In Né Eva né Adamo, la scrittrice belga Amélie Nothomb scrisse: “Ho ventitré anni e non ho ancora trovato nulla di quello che cercavo. E per questo che la vita mi piace. È un bene, a ventitré anni, non aver ancora scoperto la propria strada”.

Cosa direbbero pa’ Giacinto e zio Robi dopo una risposta del genere? 

Direbbero che il frutteto e la scuola hanno bisogno di nuove braccia e di nuove voci. Vogliono un futuro certo per la figlia e la nipote; una risposta lampante dopo tutti gli anni passati ad educarla a loro immagine e somiglianza. Per il nome che porta nel mondo e soprattutto nel microcosmo della Città.

Sara sta cercando di capire e per capire bisogna mettere le dita nelle crepe vedere se c’è sangue o se c’è acqua, sentire, attendere, sbagliare strada e poi tornare indietro ancora. Tutte cose che la famiglia, la provincia, i famigliari non sempre ti permettono di fare, convinti di sapere quale sia la cosa migliore per te, senza vedere chi sei, cosa stai diventando.