“Mostruosa maternità”: intervista a Romana Petri  

Scritto da

La casa editrice Giulio Perrone ha pubblicato una raccolta di racconti mostruosamente bella: Mostruosa maternità è il nuovo libro della scrittrice Romana Petri che, con una profonda analisi psicologica e un’acuta conoscenza dell’anima umana, esamina il tema della maternità nelle sue tracce più spaventose e orrorifiche, mettendo in luce come la maternità non è sinonimo di perfezione.

I 12 racconti, che vanno dal medioevo ai tempi contemporanei, parlano di madri: madri annoiate dalla vita che sperano che i propri figli possano essere un lenimento alla propria noia; madri che, dopo la morte – o l’assassinio? – del proprio figlio, chiedono di avere, in carcere, il proprio beauty-case e un rosario; madri che seviziano il corpo delle figlie per gelosia e madri che si uccidono per la perdita della bellezza.

Com’è nata questa raccolta di racconti? 

L’idea è nata molti anni fa, quando sono rimasta incinta di mio figlio. La maternità è cosa antica ma nuovissima però ogni donna che aspetta un figlio per la prima volta. In quel periodo di grandi incognite ho cominciato a voler osservare quello che nemmeno concepivo e cioè il lato oscuro della maternità. Contro ogni stereotipo, perché il lato nero esiste in ogni cosa e la cronaca ne è la prova.

Quasi tutti i tuoi racconti ruotano attorno al dubbio. Non si sa, per esempio, nel primo e nell’ultimo racconto, se ad uccidere il figlio sia stata la madre; o se sia innocente o colpevole. L’interlocutrice dell’ultimo racconto – Colpevole e innocente – dice che non le piace “chi vive senza il dubbio. Dove c’è il dubbio c’è intelligenza, dove non c’è regna l’ottusità”. Come si inquadra il dubbio nella tua opera di scrittrice?

Il primo e l’ultimo racconto parlano del caso Franzoni, l’unica che non ha mai confessato di aver ucciso. Nel primo è lei che parla, o pensa, dal carcere. Nell’ultimo sono due donne dal parrucchiere, una colpevolista e l’altra che non vuole cedere all’istinto e cerca di capire. Fu un caso davvero atroce. Credo che resterà per sempre Il Caso più inquietante di queste storie di violenza. Volevo scrivere di ciò che non capivo.

I tuoi racconti ci dimostrano quanto sia estremamente moderna la figura di Medea. Quello che perdono queste donne, così come Medea nel momento dell’uccisione dei propri figli, è l’umanità, ma direi non la propria umanità ma quella che viene a loro attribuita da chi si considera integro e umano. Vengono subito definite creature disumane, prive di ogni tipo di compassione e pietà. Cosa spaventa di queste donne?

È inconcepibile che per gelosia una donna possa uccidere i propri figli. In realtà i pochi atti di violenza che le donne commettono al mondo sono considerati tutti inconcepibili. Nella donna si vuol vedere la pacatezza, l’accudimento, la protezione innati. Ma non è così: una donna porta in sé la sua dose di violenza come tutti e come in tutti può attraversare quel momento disconnesso che può farle compiere un atto atroce. Ci tengo a dire che in questi racconti non giudico, non comprendo e non condanno. Osservo e cerco di capire.          

In uno dei tuoi racconti parli dell’abitudine e di come ci sentiamo in colpa nel momento in cui stiamo tradendo e deludendo il solito; nel momento in cui facciamo qualcosa di diverso dalla normale quotidianità. Cosa o chi ci spinge a essere fedeli alle solite cose?

La società vuole ancora una donna che si accontenta della sua vita, soprattutto se è madre. Se è madre è ormai una donna completa e appagata. Non è così. non tutte le donne sono nate per procreare e sarebbe un bene se si insegnasse questo a tutte fin da bambine. La maternità è una scelta e non un’imposizione che, guarda caso, esplode sempre intorno ai 38/40 anni, quando un figlio lo devi “proprio” fare se non vuoi saltare il turno. Lo dico senza timore di accuse perché io sono madre e l’ho voluto dopo aver molto riflettuto. La maternità non è un obbligo e nemmeno un dovere. Sono questi figli messi al mondo per “andava fatto” che possono correre il rischio di avere madri poco empatiche, che non partecipano e non si interessano. Provano quasi subito il terrore della rinuncia alla propria vita. Per fortuna non tutte uccidono, eh? Non è questo il senso. Ma esistono tanti modi di esser “mostruose” e la poca partecipazione, diciamo pure il moderato amore, è uno di questi.

Fumare durante la gravidanza. Un nutrimento che ammala e rende la vita che nasce una vita già malata in partenza. Un personaggio dei tuoi racconti dice che “non esiste malattia peggiore della vita”. A questo punto, mi chiedo: dobbiamo incolpare i nostri genitori per averci messo al mondo?

No, non era questo il senso. Il senso è che tutto quello che dobbiamo attraversare, tutte le traversie che affrontiamo, tutti i dolori ci trasformano, ci cambiano, ci ammalano e non abbiamo i mezzi per superarli. E io non credo nella mistica del dolore, nel bene che ci fa, di quanto dal dolore atroce si possa imparare. Lottare con il dolore toglie energie, è stremante. Ho sempre pensato che ad ucciderci, alla fine, sia sempre la vita. Mai la morte.

Dedichi questa raccolta di racconti a tua madre, e alle sue mani. Quanto sono importanti le mani di una madre? E quanto ciò che impariamo del mondo, nella prima fase della nostra vita, deriva dall’osservare dove si dirigono e dove ci dirigono le mani materne?

Sono stata una figlia abbastanza fortunata. Mia madre mi dedicava molto tempo, era felice di giocare con me, di parlare con me anche se io ero solo una bambina. Le mani della madre sono “l’oggetto” più importante per un bambino: ci prendono in braccio, ci accarezzano, ci lavano, ci nutrono, ci consolano. Credo che la prima strada dell’amore passi attraverso il tocco. I genitori che non toccano i figli non immaginano nemmeno quanto amore possano sottrarre inutilmente. Gli abbracci, i baci, i sorrisi, sono il nostro punto di partenza. Quando suona lo starter della vita, quello è il nostro primo allenamento. Se cominciamo la corsa sprovvisti di complicità è molto più difficile. Comincia sempre tutto laggiù.