L’età dell’uva: intervista a Mattia Tarantino

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La casa editrice indipendente romana Giulio Perrone Editore ha da poco pubblicato “L’età dell’uva”, preziosa raccolta di poesie del giovanissimo Mattia Tarantino. Tarantino (Napoli, 2001) codirige «Inverso – Giornale di poesia» e fa parte della redazione di «Atelier». Collabora con numerose riviste, in Italia e all’estero, tra cui «Buenos Aires Poetry». I suoi versi sono stati tradotti in più di dieci lingue. Ha pubblicato “L’età dell’uva” (2021), “Fiori estinti” (2019), “Tra l’angelo e la sillaba” (2017) e tradotto “Verso Carcassonne” (2021), di Juan Arabia e “Poema della fine” (2020), di Vasilisk Gnedov. 

“L’età dell’uva” dimostra/rivela la parola e il suo sciamanico tentativo di controllare ciò che non si può controllare: la morte. La prima parte è, infatti, dedicata alla relazione tra i morti e gli amanti, a come questo rapporto permei la quotidianità; nella seconda parte, invece, sono presenti le variazioni in cui l’autore fa uso delle stesse parole, cambiandone il suono e la disposizione. 

La chiave di tutto è la parola. La parola pronunciata, emessa, lasciata uscire fuori, viene rubata, il suo significato viene saccheggiato. “I morti non hanno lingua” e, proprio per questo, si servono della lingua dei poeti per parlare a chi è rimasto in vita, per comunicare loro quelle parole che, in vita, “non hanno trovato”. Qual è il segreto della parola? E quando, e perché, la parola riveste le armi di quel nemico che in guerra lascia una breccia, una ferita che non si può più richiudere? 

Il segreto della parola: mistero della trasparenza, trasparenza del mistero. Si tratta di Narciso che muore perché non si riconosce, di Narciso che trapassa in fiore. Trapassare… non mistero, ma svelatura, piano e spigolo, allucinazione. Trapassare… è l’interstizio del piano spigoloso dove morte e linguaggio si aggrovigliano, scivolano, fendono. Questo asse instabile, questo piano saltato, negativo, minore, è il luogo in cui il linguaggio si arresta perché sorga – scorga – una voce. Ecco la ferita che «se blesse à nous,/ et nous à ses fuyants»

La preghiera è il modo – la parola – tramite cui chi muore può ritornare nel nostro mondo? 

La preghiera è l’istanza precaria che urta contro l’oggetto che desidera – aspetta - e che svanisce, che sempre viene meno, che viene sempre meno. Si tratta di una certa furia, di una precisa tensione della voce – smodulazione della parola, parola smodata – nello spazio. Saulo «si sollevò da terra e con gli occhi aperti non vedeva nulla» (At 9,8). Vedeva Dio e lo chiamava nulla, Dio e nient’altro che Dio e, vedendo Dio, vedeva tutto come nient’altro che nulla… abgründ, anzi, abgründlichkeit.

Tuttavia, tu inviti a “cancellare l’alfabeto” perché ogni cosa esiste – ed esiste in maniera più forte e vera – anche senza il suo nome. 

Cosa sono le cose senza i nomi che l’uomo ha attribuito loro? 

L’Ich denke, questo operatore – dispositivo? – del Mensch che rende la Dinge Sache… il nome sottrae – e installa – l’equivoco della cosa strappa l’insignificanza, colma, dice il colmo. La cosa esposta al nome nel nome è «tolta via». La cosa che rimane, che resta, invece, è precaria, corruttibile, talvolta insensata, fuori dal nome. Se «nomina nuda tenemus», disattivare il nome è disattivare la proprietà – neutralizzare la reggenza…

Sottovoce: è un termine che ritorna spesso nelle tue poesie. Le cose importanti, e le cose che non si vedono, si dicono sottovoce? 

Poco prima giocavamo con il fondo già-sempre infondato, la mancanza – l’in-costituzione, l’incostituzionalità – di fondo. Luogo del «–» dove il «–» si fa pratica e frequenza, si fa groviglio e taglio della voce, perché sia la voce. Frequenze, scale: da [(VVVV) (p,q)] a [(FFFF) (p,q)]… recidere questo, recidere ??=∑?=0?(??), recidere la possibilità di esistenza. Recidendola è affermata, recidendola è detto – giocato – l’equivoco, e la voce potrà essere agitata. Oppure no, oppure prima ancora che sia… ecco il sottovoce, il sotto della voce nella voce.