Paul Klee. Genio e regolatezza: conversazione con Gregorio Botta  

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È l’11 dicembre e siamo in cima alla Nuvola di Fuksas, sospesi in aria come sopra un dondolo  appeso alle stelle, una navicella spaziale fatta di metallo e stoffa. Il sole sta tramontando e il buio inizia già a calare sull’ultima giornata di “Più Libri, più liberi”, la fiera della Piccola e Media Editoria. Eppure la Sala Cometa è gremita di persone, accorse ad assaporare l’ultima novità editoriale di Laterza, Paul Klee. Genio e regolatezza, ad opera di Gregorio Botta. 

Esplosioni di colore, filamenti, griglie, fiori astratti; Paul Klee non è solo uno degli artisti più  importati del Novecento, è l’«inafferrabile», colui che, andando controcorrente o semplicemente contro il mito romantico della sregolatezza degli artisti, fa della vita semplice e della regolatezza ferrea l’elemento straniante della sua pittura folle e sincera, infantile e matura. 

«Si incappa spesso nell’errore di vedere Klee come un’artista dalla pittura semplice, forse perché è l’artista che più di ogni altro è stato oggetto d’amore da parte dei bambini; dei bambini e degli aduli-bambini: i filosofi, che sulle sue opere hanno scritto centinaia di testi e saggi, ponendosi le grandi domande che ci tormentano da sempre», osserva Giorgio Botta, artista e appassionato di Klee fin dalla prima giovinezza. 

«Ho subito il fascino di Klee perché era un uomo normale. Van Gogh e Picasso hanno vissuto vite estreme, tormentate. Lui invece era diverso. In qualche modo è riuscito a regolare la sua vita e con lei il flusso creativo inarrestabile che lo animava come una fiamma. Era il “Buddha”, “Il mago del Bauhaus”, eppure è riuscito a preservarsi e a preservare la sua famiglia, i suoi affetti, gli studenti con la quale ha lavorato. All’inizio della sua carriera, al contrario di quanto si possa pensare, era un vero casalingo: i suoi primi anni sono stati contrassegnati dai lavori di casa e dalle piccole faccende quotidiane. In casa era la moglie a mantenere la famiglia, dando lezioni di piano. Klee dipingeva e basta, in cucina, davanti al figlio Felix, di cui si prendeva cura con gioia quasi infantile. Preparava il pranzo per lui e, nel frattempo, in quella situazione di estrema ristrettezza, tra fornelli e pappe, stendeva i suoi quadri». 

La magia di Klee era proprio questa: l’equilibrio, la regolatezza rigorosa eppure sognante che gli permetteva di bilanciare il suo essere puer e senex allo stesso tempo, l’artista e il padre, l’uomo, il mistico e il bambino. Niente lo fermava, non ci è riuscita nemmeno la guerra, per lui una rinnovata occasione per creare senza posa, utilizzando ogni genere di materiali. 

«Dipingeva sulle tele dei paracaduti, era indifferente a ciò che gli accadeva intorno. Aiutato dalla fortuna — che gli ha risparmiato il fronte — ha dipinto centinaia di opere, perfino nelle situazioni più estreme. É sempre stato molto maturo, fin da ragazzo, e la sua fantasia era inarrestabile, tanto quanto il suo talento. Klee scriveva, dipingeva, suonava. Era un bravissimo violinista, suonò persino nell’orchestra comunale di Berna. Ma la musica e la pittura non gli hanno impedito di essere anche poeta» sottolinea Giorgio Botta che, illustrando alcuni quadri famosi dell’artista, ci tiene a precisare la natura di Klee come più affine al disegno che alla pittura in senso stretto.

«Le linee erano la base di tutto. Come le linee che tracciano le lettere dell’alfabeto. Ma, a diciassette anni, Klee si è trovato davanti a una scelta da compiere: una delle arti che lo appassionavano doveva diventare la principale, la punta di diamante che gli avrebbe permesso di guadagnarsi da vivere, lavorando ma senza lavorare mai. Come ben sappiamo, la scelta è caduta sulla pittura, eppure la musica e la scrittura non vennero abbandonate, anzi, sopravvissero rigogliose, e non solo nei suoi numerosissimi diari ma anche nei suoi quadri»

Le lettere non scomparvero, quindi. Al contrario, pregne dell’amore dell’artista, andarono a nascondersi negli angoli, si intrufolarono nelle tele, sintetizzando e veicolando significati, diventando il tessuto stesso delle strutture che tutt’oggi reggono le case, i fiori e le strade contorte della sua fantasia burrascosa. «Picasso guarda un quadro come un muro. Klee lo guarda come una pagina» diceva il critico d’arte Clement Greenberg e, difatti, i colori diventano musica nelle tele del “Buddha”, e le tonalità, in grado di spandersi ovunque come luce viva, assumono una voce propria. 

Ad ogni quadrato un peso, ad ogni peso una cifra specifica. Le linee si fanno dunque  pentagrammi, gli elementi note, le vocali architetture. La x o l’asterisco cambiano di significato e, da semplici grafemi, si fanno segno focale, la firma enigmatica della sua presenza in ogni tela, il famoso “cristallo” —come lo chiamava lui — atto a tracciare la sua presenza nel suo stesso mondo inventato . 

“La matita si fa delle belle passeggiate su carta oggi” diceva Klee, e smaliziato sorrideva, parlando alla moglie dei suoi quadri. Chiunque vedesse la musica e la scrittura come lavori temporali e la pittura come lavoro spaziale, infatti, era per lui cieco, un uomo (o una donna) privi di orizzonti. Perché, come fare a non vedere che anche la pittura si prende il suo tempo? Così come prende tempo l’ascolto di un brano o la scrittura di una pagina, anche solo una di quei famosi diari che teneva con cura certosina fin da adolescente?

Sono proprio quei diari a dare l’ispirazione a Giorgio Botta, che scegliendo di dar vita a un opera diversa dal semplice manuale tecnico — ma anche dalla classica biografia —, si addentra nei meandri della mente (e del cuore) dell’artista, cercando di capirlo partendo dall’interno, dai suoi pensieri più  intimi e dalle sensazioni più arcane. 

«Da ragazzo i suoi diari mi hanno folgorato. Ho iniziato a leggerli per curiosità, perché ero innamorato della sua pittura, ma alla fine mi hanno intrappolato. Nessuno lo sospetta ma niente in quelle pagine è lasciato al caso. Klee le correggeva e rileggeva di continuo, preso da una febbre di correttezza senza eguali. Ma perché correggere con tanto accanimento qualcosa nessuno lèggerà mai? Si trattava forse di megalomania? Niente affatto. Era la sua ossessione per la regola, per il dettaglio, elemento che lo contraddistinguerà per tutta la sua carriera artistica. Il “ritorno alla forma” faceva parte del suo stesso modo di pensare, non poteva farne a meno. Non ci sarebbe riuscito neanche se avesse voluto. Aveva bisogno che la forma fosse perfetta; di avere il pieno controllo di ciò che metteva al mondo, qualsiasi cosa fosse». 

 

Controllo, pazienza, dettaglio ed ossessione, tutti intrecciati in un’unica sinfonia, che Giorgio Botta decide di sviscerare in maniera nuova, prendendo le distanze dalla tradizione manualistica. Perché leggere questo libro, infatti? La domanda sorge spontanea e il pubblico assiepato in sala se lo chiede, lanciando all’artista-biografo una sfida. 

Eppure la risposta è semplice: va letto perché si tratta di un libro diverso, che, come Klee, non si definisce, ma oscilla anzi nel mezzo, tra sentimento e storia, arte e vita vera, quella che comprende tutto, persino la banalità dell’umano. 

Se l’accademia e i manuali tecnici parlano solo agli specialisti e il divulgativo solo al volgo, il libro di Botta, infatti, si colloca in un luogo altro. Qui non c’è divulgazione, non è un testo base per chi vuole imparare le 10 cose che si devono assolutamente sapere su Klee, eppure non si tratta nemmeno di un saggio per dotti accademici, dalla mente spesso bloccata nei tecnicismi delle pennellate. 

È un opera che fornisce un quid, qualcosa che non ci si aspetta da un classico libro d’arte: un altro punto di vista. Arte pittorica e letteratura si fondono, dando vita ad una nuova concezione di modernità che, nel libro, risuona in maniera quasi autobiografica. 

Botta stesso, difatti, non nasconde di aver visto in Klee, da sempre, un modello di vita, non solo per il suo genio ma anche per la sua disarmante semplicità.

«Per me Klee é stato davvero un modello, non solo come artista ma anche come uomo. Lui è la dimostrazione che fare l’artista non preclude la normalità. Ma se si trattasse solo di questo mentirei. Ho scritto questo libro anche per altri motivi, ragioni che trascendono lo studio e l’interesse verso l’opera d’arte. Quando l’editore mi ha chiesto perché ho scelto di scrivere un libro proprio su Klee, infatti, l’unica cosa che ho potuto rispondere è stata “perché lo amo”».

Serve forse altro? Perché si scrivono libri? Perché si dipinge? Ebbene, lo si fa per amore. 

E l’amore, un po’ come Klee, è un mistero, e merita di essere esplorato.