Filosofia coatta: dal disimpegno all’amor di narrazione

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L’intellettuale del secondo dopoguerra, quello alla Calvino per intenderci, è scomparso da un pezzo; oggi il ruolo è mutato, insieme al cambiamento della società, centellinandosi in tante figure e forme differenti, non immediatamente percepibili o classificabili.

L’intervista a un personaggio come Giulio Armeni (aka Filosofia Coatta) potrebbe inizialmente stranire i più tradizionalisti, abituati a recepire il pensiero di figure socialmente stabilite e autorevoli: giornalisti, scrittori, storici e politici.

Niente di sbagliato in tutto ciò. Ma è doveroso scardinare l’idea che solo i rappresentanti di professioni classiche e ben definite posseggano la verità, o, almeno, la capacità di leggere e interpretare il presente. 

Giulio è laureato in Filosofia ed Editoria e scrittura, nonché laureando al corso magistrale di Filosofia; non esclude di fare l’insegnante e ha già pubblicato due libri per Momo edizioni. Gestisce il progetto satirico Filosofia coatta, che vanta migliaia di followers (tra cui i famosi giornalisti e scrittori di cui sopra) e numerose collaborazioni. È autore di un podcast e si può spesso trovare in giro per Roma con spettacoli e reading diversi. Un personaggio poliedrico, non cristallizzato, fedele a sé stesso ma aperto alla ricezione dei mutamenti del presente, che riporta nei suoi cosiddetti memeromanzi.

Le sue creazioni, oltre ad essere spassose, presentano un fondo culturale stimolante, inducendo spesso ad una riflessione spontanea e, forse, inconsapevole; ma ciò che colpisce di più, sentendolo parlare, è la lucida e intelligente cognizione di un amore per la storia che travalica i confini della presa di posizione a priori, lasciando emergere un’umanità spesso dimenticata.

Durante una delle tue ultime serate, intitolata Memento bori, è emerso quanto ciò che fai sia partito come un esperimento goliardico, durante il liceo, mentre oggi presenti un grande seguito. L’utilizzo della filosofia quale lettura del presente è indubbiamente la prima cosa che salta all’occhio dalla tua produzione, riuscendo ad oltrepassare la mera risata e far riflettere il lettore. Dunque, oggi hai un impatto indubbiamente più forte.

Come è cambiata la tua scrittura negli anni, e quanto ti senti di incidere sulla realtà?

Nel tempo gli obbiettivi cambiano. All’inizio prevaleva la volontà di far arrivare un messaggio: da giovane vuoi che tutto il mondo la pensi come te, hai questa volontà di potenza per cui vorresti quasi insegnare agli altri come e cosa pensare, in modo irruente e un po’ presuntuoso. Utilizzavo la filosofia come strumento per osservare la realtà e convincere gli altri di cosa pensavo di essa.

Col tempo, invece, la filosofia si è fatta da parte, lasciando spazio alla voglia di raccontare storie in modo più libero. Con le storie, infatti, puoi fare una satira meno didascalica: non insegnano qualcosa, bensì insinuano dei dubbi, legittimano l’esistenza di emozioni e pensieri che cercano di incrinare il discorso pubblico. Facendo satira su temi molto dibattuti, la sfida diviene quella di dire qualcosa che rompa una trama in cui si dicono sempre le solite cose, con le stesse polarizzazioni. La storia ha il dono di non schierarsi, di rompere queste reti soffocanti; non è giusta o sbagliata — sui social si cerca sempre chi ha ragione e chi no — ma respira di più, anche se poi, ovviamente, può generare dibattiti. Rompe lo schema predominante dei social usando proprio il loro pane quotidiano, ovvero l’intrattenimento. Sono passato, quindi, dal voler comunicare un messaggio al voler intrattenere, cercando di regalare un intrattenimento onesto e buono.

In un momento così delicato per il nostro paese, reduce dall’anniversario della marcia su Roma, è senza dubbio fondamentale smuovere le coscienze, fare educazione. 

Vorresti andare più nel profondo, ottenendo risultati più concreti, o preferisci restare disimpegnato con una satira fine a sé stessa?

Il buon insegnamento, a mio parere, è quello che non ti dà contenuti ma passione, ed è proprio questa che vorrei far trasparire da ciò che scrivo: l’amore per la scrittura e per la realtà in tutte le sue sfaccettature, senza dover sottolineare ciò che non mi piace.

C’è in me un desiderio di smuovere le coscienze, senza dubbio, ma non in una direzione definita; esattamente come farebbe un professore, che non porta avanti un contenuto quanto un metodo. Seminare un dubbio, smuovere una certezza, dare un approccio critico in modo subliminale, senza troppa retorica…questo è ciò che desidero. 

Come nasce la collaborazione con Momo edizioni? 

Mi contattò il fondatore, Mattia Tombolini, proponendomi di fare un manuale (o anti-manuale) di filosofia coatta, che io avevo in progetto da molto tempo. Sono stati loro, quindi, a trovarmi e a scegliermi.

Momo si definisce una casa editrice radicale e per me è stato un bene, perché la libertà che mi hanno lasciato nella scrittura non era scontata. Essendo molto attenti a certi temi, sono riusciti a capire il gioco di fondo del mio progetto, senza censurarmi in alcun modo e questa è stata la forza del libro (tanto che molti liceali, leggendolo, sono rimasti sorpresi).

È un libro schietto, narrato da un borgataro coatto senza filtri. 

Oggi non so se lo rifarei, sono più intimidito e cauto nella scrittura; non tanto per il maggior seguito che ho, quanto per i tempi mutati. Gran parte del libro, infatti, l’ho scritta a sedici anni, quasi ingenuamente, mentre ora si è molto più attenti a scrivere certe cose. È cambiata la percezione della realtà e, giustamente, le domande che uno si pone prima di dire qualcosa.

Momo però non si è fatta problemi su questo, giusto?

No, loro sono in buona fede. Essendo così radicali, superano quella soglia per cui sanno fare ironia contestualizzata: sono persone vere.

Quanto credi sia cambiato il tuo stile negli anni?

Dipende cosa si intende per stile. Formalmente, dai miei scritti del 2011, è cambiato tutto: prima erano biografie di filosofi parodizzate in romanesco, ora sono meme sull’attualità.

Ma c’è una cosa che è rimasta, ed è l’ossimoro, la dimensione di contrasto, il bisogno di creare accoppiamenti strani. Il nome filosofia coatta, la commistione di alto e basso, continua a rappresentarmi perfettamente negli anni. È un po’ come il mio quartiere, Talenti, in cui trovi di tutto e ti puoi muovere tra i poli: questa è una fortuna perché è proprio tra le polarità che c’è vita, scambio, diversità e dinamismo.

Come dicevi prima, a te piace il fatto che dai tuoi scritti emerga il lato umano, con la storia in primo piano, piuttosto che una presa di posizione. Quanto contrasta questo con il tuo effettivo sentire politico e ideologico?

Molto poco. Quando mi chiedono cosa penso della politica mi trovo sempre in difficoltà: certo, ho dei paletti, ma trovo difficile capire ogni volta dove stia la ragione, anche perché, spesso, dopo pochi giorni ognuno di noi può cambiare opinione.

Esprimermi con le storie rende molta più giustizia al mio pensiero e al mio stato d’animo: una storia ha valore anche dopo molto tempo, proprio perché contiene tutte le possibilità di quel che puoi pensare di un tema. Essa mi lascia spazio perché non mi ci colloco precisamente ma, allo stesso tempo, quello spazio lo lascia anche agli altri, permettendo che vi si traggano più versioni e interpretazioni. 

Vedendo i tuoi memeromanzi si percepisce la dimensione di imparzialità; dai l’impressione di essere una persona riflessiva, che analizza l’attualità con mente lucida. A differenza del secondo dopoguerra, in cui era necessario essere antifascisti, oggi il disimpegno può essere ragionato e giustificato. 

Tu dici che sono imparziale perché sono lucido. Io penso di essere imparziale perché sono confuso! Quando scrivo a proposito di un certo tema, cerco di restituire tutte le voci che mi risuonano nelle orecchie.

Ad esempio, il meme in cui il ministro Fontana parla della religione: a me interessa che permanga, anche nella nostra epoca, una forma di spiritualità, che considero importantissima. Tuttavia, non desidero la spiritualità di Fontana. Avrei quindi potuto creare un meme anti-religioso, ma non mi avrebbe rispecchiato perché io non ho solo quella voce! Ho tentato quindi di rappresentare la critica verso un certo tipo di religiosità, accanto al desiderio di un nuovo tipo di spiritualità, e il risultato non può essere che confuso. Io stesso non posso prevedere le forme che assumerà, infatti, i commenti spesso sono estremi. Ma, alla fine, il senso resta quello di restituire la complessità che sento dentro di me.

E ti senti di riuscirci?

Non lo so, non so mai cosa pensano le persone. Magari tra tutti quelli che hanno commentato c’è qualcuno che scopre un nuovo punto di vista, un’apertura; questa sarebbe una soddisfazione. 

Le cose che pubblico, fortunatamente, sono visioni in cui mi rispecchio anche a posteriori, perché, in quanto storie, hanno un margine di libertà. Con il tempo ho imparato che quando scrivi devi rimanere vago: quella vaghezza è infatti uno spazio necessario.

Progetti per il futuro?

Sta per uscire la riedizione del manuale, sempre edito da Momo, ma ho anche un nuovo progetto, più in linea con ciò che è adesso la pagina: un’antologia cartacea di memeromanzi.

Inoltre, spero che i miei meme trovino un posto dove andare, oltre le mie pagine social. Negli ultimi tempi trovo che le testate prendano i meme più sul serio e questo è sicuramente positivo. È fondamentale percepire la loro dimensione artistica, così in linea con i tempi; essi, a differenze di serie tv e film, dai tempi lenti, sono molto più efficaci e veloci, riescono ad andare in profondità, nello specifico. Questo va riconosciuto, le testate farebbero bene ad attrezzarsi di conseguenza.

Devo ammettere che ho anche un romanzo nel cassetto, progetto però ancora lontano; prima, mi piacerebbe scrivere un libro di racconti.