Combattere il grigiore del regime con i colori della bellezza: "Volevo essere Madame Bovary" di Anilda Ibrahimi

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La protagonista del nuovo libro di Anilda Ibrahimi, Volevo essere Madame Bovary, edito da Einaudi, si chiama come la dea greca del matrimonio e della fedeltà: Hera. Hera, dopo tanti anni, torna in quella che è stata la sua casa, apparentemente per una fuga d’amore, ma in realtà per ritrovare, o forse meglio, non-trovare il paese che ha lasciato: l’Albania degli anni Novanta.                   

Hera è vissuta in un paese in cui l’ideale femminile è quello del matrimonio e gli unici obiettivi possibili sono la costruzione di una famiglia socialista — che è il nucleo dello stato— , il lavoro, fare felice il proprio paese e cooperare per un apparente benessere collettivo.                              

Nello stato comunista in cui è nata e cresciuta, l’individualismo è bannato come la colpa peggiore, perché chi è individualista è liberalista, e i liberalisti sono i nemici del Partito e del Paese. Hera passa le sue giornate a leggere i romanzi di Tolstoj e Balzac, le cui eroine protagoniste vanno incontro a una fine tragica; drammatica fine di cui però, Hera non si sente affatto degna. Nonostante ciò, tuttavia, sono proprio i romanzi d’amore, insieme ai vestiti colorati che fa cucire ad hoc —  non conformi all’austerità e al rigore richiesto dalla società comunista— che, secondo la nonna paterna, le stanno rovinando la testa.

 

Tutti in famiglia concordano sul fatto che Hera “farà una brutta fine”. Che saranno vestiti e romanzi a farle fare una brutta fine. Non è, piuttosto,  la lettura di quei romanzi e l’ideazione di abiti da indossare ciò che le permetterà di sopravvivere “all’assenza di colori”, permettendole di mettersi in salvo?  

 

Ho passato la mia infanzia e adolescenza sotto il socialismo reale, dove lo scopo della società era costruire l’uomo nuovo e, in questo processo, le protagoniste erano le masse. Con questo si intende l’esclusione di ogni manifestazione di individualismo, sia sotto forma di idee che di aspetto fisico. Tutto sommato non mi sono sentita mai isolata, potevo leggere e finché si ha accesso alla grande letteratura è impossibile sentirsi soli, anche se i confini geografici vengono chiusi. Spesso gli autori che mi tenevano compagnia appartenevano all’Ottocento, ma sapevo che là fuori c’era un mondo più grande del nostro. Con il passare del tempo ho capito che i vestiti femminili e colorati erano una forma di resistenza verso la dittatura, e che chi osava cercava di esprimere la sua individualità. C’è qualcosa di estremamente eroico nel combattere il grigiore di un regime con la bellezza. 

 

Cosa significa, nell’Albania degli anni ’80, “fare una brutta fine”?

 

La brutta fine che intendono le donne nel mio romanzo era il ripudio dal marito. Venivano da una società molto arretrata e patriarcale dove il marito una volta aveva persino il diritto di uccidere per delitto d’onore, cosa che con l’arrivo dei comunisti non era più possibile. Ecco perché è importante contestualizzare sempre, ecco perché la storia è molto più complessa per ridurla sempre a due opzioni: giusto o sbagliato. Bisogna riconoscere che il loro arrivo ha liberato le donne dal patriarcato tradizionale, le ha messe in salvo da una società a dir poco violenta verso di esse. D’altro canto lo ha sostituito con il patriarcato socialista dove le donne subivano il doppio carico del lavoro, erano libere di lavorare fuori casa, ma dentro le cose rimanevano come prima, Rosa Luxemburg e Clara Zetkin furono le prime ad analizzare lo sfruttamento delle donne nell’ambito della cura. Tornando alla sua domanda, negli anni ottanta la brutta fine riguardava anche il fatto che chi osava ribellarsi alla dittatura del proletariato finiva in campi di rieducazione o in prigioni politici. 

 

Vittima di una famiglia e di una società patriarcale, Hera asserisce più  volte nel corso del romanzo che, durante la prima fase della sua vita, non ha mai avuto libertà di scelta. Ma quanto la sua decisione di lasciare il paese è stata veramente una scelta incondizionata e libera? 

 

Anche ora che vivo in una società democratica non credo alle scelte libere e incondizionate. Abbiamo la facoltà di libera circolazione come cittadini del mondo ma quanti realmente fanno questa scelta per il gusto di esercitare questo diritto? Da quel che mi risulta, i giovani d’oggi si muovono in cerca di occupazione, sia nelle migrazioni interne — dalla provincia verso le grandi città — che all’estero, lasciando spazio alla desertificazione culturale. 

Qual è la paura più grande di Hera? Quella di diventare come sua madre? 

 

Non può diventare come sua madre, perché è figlia di un’epoca diversa. Da bambina il fatto che sua madre non sembrasse fisicamente una donna come la intendeva lei, come quelle di cui leggeva nei romanzi, la inquietava. Ma nota presto che tutte le donne del suo paese sono come sua madre e, quindi, si tratta che di un fatto collettivo che non riguarda solo lei.  Le donne nel socialismo reale erano diventate l’uomo nuovo. Lei vuole essere femmina e questo non solo perché è vanitosa, ma anche per un fattore identitario, di appartenenza, di riconoscimento. 

 

Nella sua giovanile permanenza in Albania, Hera incontra tutta una serie di uomini il cui intento nei confronti delle donne è quello di proteggerle e salvarle, di “prenderle” come se fossero cose, oggetti. Giunta in Italia, Hera pensa di trovare una situazione diversa, una maggiore libertà e indipendenza femminile. Tuttavia, si accorge ben presto che le cose non stanno in questo modo: anche gli uomini italiani sono gelosi e protettivi. A un certo punto, incontrerà Stefano, il suo futuro marito. Stefano è un editor, di mestiere, taglia e cuce le storie degli altri. Quanto l’intenzione, e poi l’atto, da parte di Stefano, di ricucire “la vita a brandelli” di Hera non è una forma di invasione e protezione da lui imposta, ma esclusivamente un atto di cura e amore? 

 

Potrebbe essere entrambe le cose, una non esclude l’altra. Forse, per via del suo vissuto personale, ad un certo punto della sua vita pensa anche lui, in quanto maschio, di volerla salvare. Ma non è poi così strano che in quel salvataggio ci sia anche cura e amore. 

 

Questo è un romanzo sul linguaggio; su come il linguaggio unisce e divide. Una volta in Italia, Hera cerca di appropriarsi della lingua italiana e delle abitudini del nuovo paese. Nel suo nuovo linguaggio vengono meno quella drammaticità e quella tragicità che caratterizzano il modo di parlare albanese, in cui in ogni frase è presente una maledizione e un riferimento alla morte. Tuttavia, Hera non vuole che ci sia un’assimilazione totale, non vuole che “la bambina delle carrube” sparisca per sempre, sotterrata da un nuovo idioma. Quanto è più forte la memoria rispetto al linguaggio? Basta adottare una nuova lingua per seppellire il proprio passato? 

 

Penso che nessuna lingua e nessun linguaggio possano seppellire la memoria. Con essa si trasmette il nostro passato, le nostre storie che sopravvivono al tempo di generazione in generazione, indipendentemente dal luogo. Non a caso, lei rassicura suo padre sul letto di morte che le loro storie verranno trasmesse a suo figlio, anche se in un’altra lingua.  

 

Come si vive oggi in Albania? 

 

Manco da ventotto anni, e il tempo che ho trascorso fuori dal mio paese ha superato di gran lunga quello che ho trascorso dentro. Andandoci sporadicamente, cioè da turista, è impossibile per me avere un’idea ben precisa sull’andamento del paese. In ogni caso è un paese molto movimentato ed ha un’impronta moderna ed europeista. Sicuramente avrà i suoi problemi, come tutti i paesi in via di sviluppo, ma quale paese oggi è senza problemi?

 

Nei tuoi romanzi, prevale una scrittura essenziale, scarna, senza fronzoli superflui. È così anche il tuo parlare quotidiano? O sei una chiacchierona? 

 

Si, ho una scrittura scarna ed essenziale e ci lavoro molto per arrivarci. Non mi piacciono gli imbellimenti e preferisco dire le cose, anche quando tragiche, in modo secco e diretto. È molto più vicino alla vita reale. Nella vita quotidiana non sono esattamente una taciturna, ma una cosa è certa, sono “abitata” dal black humor e spesso risulto tagliente: devo sempre stare attenta a non essere fraintesa. Una volta un’amica mi disse che “la verità in amicizia è una cosa volgare”; ci ho pensato a lungo a cosa volesse dire esattamente. Non ho trovato risposta, tranne che forse non ero l’amica adatta a lei.  La parola che i miei figli sentono più spesso da me è: stringi. Nella loro narrazione devono dare un nome alle cose e quel nome deve corrispondere ai fatti, senza fronzoli.