“Fai bei sogni”: Massimo Gramellini si racconta fra infanzia e favole salvifiche

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Cosa succede quando quell’amore che ci dilania è lo stesso amore che ci ha cresciuti e poi lasciati, abbandonandoci a un cammino fatto di passi incerti e a una solitudine profonda, simile al rifiuto, alle cose troppo sbagliate per essere vere? 

Massimo Gramellini prova a spiegarselo in Fai bei sogni (Longanesi, 2012), guardando a quel sé bambino ormai lasciato alle spalle, senza tuttavia perdere mai di vista quell’adulto che, ogni giorno, si guarda allo specchio nella consapevolezza impaurita e coraggiosa di essere diventato padre; prova a spiegarselo e, allo stesso tempo, prova a ricostruire le tracce della sua storia, volgendo lo sguardo alla madre assente. La donna che, dopo lunghi anni dalla sua prematura scomparsa, lo tormenta ancora, attraverso la nebbia del ricordo, facendolo sentire come se chiunque nella sua vita indugiasse sempre sul confine tra la presenza e l’abbandono, pronto ad avvalersi dell’arma peggiore di tutte per spezzargli il cuore ancora una volta.

«Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più».

Scrive infatti Gramellini che, dopo ben dieci anni dall’uscita del romanzo e 1 milione e 300 mila copie vendute, varca la porta della Sala 500, al Salone Internazionale del Libro di Torino. È in ritardo e ha il sorriso di chi, per raccontarsi, è sopravvissuto a mille emozioni e ad un milione di critiche; ma anche la tenacia di chi ha superato la prova del tempo e, dai suoi lettori, non è stato dimenticato affatto. Nessuno ha smesso di amarlo; al contrario, le poltrone sono gremite e fra le pareti scure della sala, al suo ingresso, risuona un applauso fragoroso, che rimbalza fra le mani di centinaia di persone, tutte in attesa di sapere di lui e del suo romanzo che, per ben 50 settimane dopo la sua uscita, è rimasto in vetta alle classifiche delle vendite. 

«Massimo Gramellini è tornato ed è diventato cattivo. Ha smesso definitivamente di essere buono» Lo apostrofa ironicamente ma bonariamente Federico Taddia, saggista e autore televisivo, pronto ad accompagnarlo durante l’incontro. Scrivere, infatti, al contrario di quanto non si possa pensare, non è un mestiere tranquillo, non ti mette al sicuro, non ti nasconde dalle critiche e dagli attacchi altrui. Non ti impedisce di soffrire, di evitare quell’abbandono tanto temuto; sopratutto se sei un giornalista affermato, soprattutto se, come Gramellini, decidi di prendere la tua storia personale — la più intima, la più vera —  e decidi di mostrarla a tutti, esponendo il fianco fragile della tua infanzia, devastata da una cicatrice profonda quanto invisibile. Scrivere, spesso, vuol dire accettare di correre il rischio di ferirsi ancora, di riaprire le lacerazioni che si credevano chiuse; vuol dire concedersi un atto di fede, credere con certezza che, forse, i libri servono proprio a questo: a spezzarsi e ricomporsi come i vasi giapponesi del kintsugi, l’arte giapponese di riparare le crepe con l’oro. 

«Alessandro Baricco non si aspettava affatto che scrivessi questo libro mostrando il mio nome, dichiarando che si trattava di me, della mia storia. Ricordo ancora il suo stupore: “Hai davvero intenzione di scrivere in prima persona?”; la febbre psicosomatica che mi ha assalito in quelle settimane di scrittura era la dimostrazione lampante di quanto il libro contasse per me. Moltissime persone, ho scoperto in seguito, lo hanno letto senza sapere che si trattava della mia infanzia e che il bambino nel libro non era semplicemente un personaggio. Lo hanno scoperto solo alla fine e hanno provato lo stesso stupore di Alessandro. Ma perché avrei dovuto nasconderlo o mentire? Avevo intenzione di scrivere tutto, lo avrebbero scoperto comunque». 

E che male ci sarebbe stato infondo? Esporre le proprie ferite, in un mondo offuscato dalla finzione mediatica continua nella quale siamo immersi, non può che farci sentire più veri, più  umani e, sopratutto, meno soli. 

«Rispondo alla posta del cuore dal 1999, tutte le settimane, e credetemi quando vi dico che le cose sono diverse da come erano una volta. I commenti sono sempre più corti, contenuti. Le relazioni sono cambiate. I social hanno stravolto il nostro modo di comunicare. Spesso mi chiedo, come sarà tra vent’anni? È davvero tutta colpa del telefono?»

Siamo davvero felici come sembriamo? Ponendosi la fatidica domanda che forse, un po’ tutti si sono fatti, soprattutto in questi anni di isolamento pandemico, il giornalista si guarda intorno, cercando di rispondere e rispondersi. Perché forse è vero che le relazioni sono cambiate ma le emozioni, i sentimenti, sono rimasti sempre gli stessi e le ferite che ci portiamo addosso, volente o nolente, li influenzano, li alterano, talvolta li corrompono persino. Alcune di esse ci fanno sentire danneggiati per sempre, altro da noi, come se ci avessero confinato a vivere una versione taroccata della nostra vera essenza. Ma è uno sbaglio. In realtà si tratta solo di cambiamento. «Il dolore ti cambia. Tutto qui. Ero un bambino estremamente vivace prima della scomparsa di mia madre, a tratti persino fastidioso. Quando la mamma se ne è andata, però, è cambiato tutto. Sono diventato silenzioso, ho imparato ad osservare le cose. Quella perdita è diventata parte di quello che sono», ammette l’autore che, dopo ben dieci anni, decide di affrontarsi ancora una volta, rapito quanto stupito dagli effetti che il suo romanzo ha avuto nel suo pubblico di lettori. 

«Quanto hai sofferto per questo libro?», gli chiede, quindi, Taddia, riportando l’attenzione sul nuovo progetto del giornalista. 

«Tanto, lo devo ammettere. In Italia ti perdonano tutto tranne il successo. Quando si vende tanto, aleggia sempre nell’aria l’idea che il tuo libro non sia un buon libro. Io credo che, specialmente in questo paese, si scambi la pesantezza con la complessità, delle volte. Se un libro non si presenta come un libro contorto, lungo, non è un libro di valore. Eppure sono passati dieci anni dalla sua presentazione e ancora, in qualche modo, è rimasto nella memoria delle persone. È un libro che mi è sfuggito di mano questo. Quando mi sono messo a scrivere, ricordo che era un luglio caldissimo; scrivevo la sera, con la febbre, cenavo da solo, come in ritiro. Mi chiedevo spesso, quasi ossessivamente, “a chi mai interesserà una storia di orfani, cosa avrà mai di così straordinario questa mio racconto, simile a centinaia di altri?” Mi sono reso conto del suo impatto solo una settimana dopo dall’uscita del libro, proprio a Torino. Una persona che non avevo mai visto mi abbracciò per strada e si mise a piangere. Per me fu un colpo. Fu un gesto di un impatto emotivo devastante. Magari la storia è una storia comune, eppure, le mamme, le figlie, tutte le lettrici… ci hanno visto dentro qualcosa di più. Hanno visto rappresentato il loro peggiore incubo: cosa farà mio figlio quando morirò? 

Sai… una signora una volta mi scrisse che non si era suicidata grazie a me, perché nonostante tutto il dolore che la sua depressione le aveva fatto provare, arrivata sul ponte dalla quale aveva deciso di buttarsi, non aveva potuto fare a meno di pensare al mio libro, di pensare al suo bambino rimasto a casa. Cosa avrebbe fatto senza di lei? E allora, sai che ha fatto? Ha rimesso la gamba dalla parte giusta del parapetto ed è tornata a casa. Forse mi basta questo».

E forse è per questo che si scrive, perché si legge, perché anche dopo secoli e secoli di storia disastrata e magnifica, alcuni romanzi ci parlano ancora. I libri, infatti, non sono semplice carta rilegata, prodotti da comprare, scambiare, condividere; certo, sono anche questo, ma sono prima di tutto sentimenti impressi su inchiostro, esperienze uniche e in qualche modo universali, in grado di generare, a tempo debito, dei piccoli miracoli. 

«Ecco perché vita e letteratura si devono incrociare» — continua Gramellini e nell’enfasi del suo discorso si sporge sul bordo della sedia — «non devono vivere in dimensioni parallele ma coesistere, compenetrarsi, contaminarsi l’una con l’altra»

Leggere le lettere dei suoi lettori, per il giornalista, è stata una rivelazione, un’esperienza che ha cambiato il suo modo di vedere le cose e nel farlo, inaspettatamente, ha finito per cambiargli anche la vita. Constatare con mano la potenza della letteratura, gli ha fatto venire voglia di riprendere le indagini, di approfondire ed approfondirsi, aggiungendo un nuovo capitolo al romanzo che, nella sua genuina sincerità, è riuscito a stregare migliaia e migliaia di persone. «Ho deciso di provarci. Oltre al nuovo capitolo, però, in questo libro ho deciso di togliere diverse pagine, frasi e paragrafi che mi sembravano ridondanti ai fini della storia. Mi sono lasciato consigliare dai critici, da grandi scrittori come Paolo Giordano, e ho appreso molto, perfino dalle loro critiche più severe. Questo mio libro— e l’ho capito solo in seguito — non è una biografia ma l’eviscerazione di un rapporto tra un uomo e sua madre, un rapporto che continua per l’intero arco di una vita, anche dopo che essa è scomparsa. Quando perdi una madre, infatti, è un altro tipo di dolore. Perché sai che è un verdetto definitivo. Lei non tornerà più. E non devi rassegnarti ma accettarlo. Io, l’amore di una madre non lo potrò mai più provare. Eppure, nel mio caso, il problema era un altro: credevo che la morte di mia madre fosse colpa mia, che mia madre non mi volesse più bene. Poi un giorno ho capito che non era affatto colpa mia, che nessuno aveva colpa di nulla; dovevo semplicemente cambiare obbiettivo, smettere di guardarmi, perché non ruotava tutto intorno a me, nella vita non ruota tutto intorno ad un'unica prospettiva. Io forse l’ho capito davvero scrivendo questo libro».  

E scrivere non solo cambia ma salva, ti fa riaffondare i piedi in quella favola che è la vita, un libro rigonfio di streghe e lupi cattivi ma anche di fate e fragili speranze, forse ingenue per alcuni, ma capaci di prenderti per mano, non sema nonostante il dolore.