Quel che ho visto e udito (ad occhi chiusi) con Ilaria Gaspari

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A Berlino - con Ingeborg Bachmann nella città divisa non è il classico reportage, il classico viaggio a cui potremmo essere abituati leggendo un titolo simile.

Il libro diventa metafora del viaggio, del suo significato e storia dello stesso, attraverso il conversare con un’esistenza fantasmatica, caratterizzata dal suo tabagismo disperato e dalle sue parole sparse tra poesie, saggi e romanzi rimasti incompiuti.

La persona di Ingeborg Bachmann, diviene la costante compagnia con cui Ilaria Gaspari attraversa la città di Berlino, cercandone le tracce e operando una vera e propria ricerca della memoria; passeggiando tra la coesistenza di un passato ancora presente ed un futuro inafferrabile, nelle rovine di una delle città considerate più all’avanguardia nel panorama europeo.

Nota scrittrice, saggista, filosofa, Ilaria Gaspari appartiene a quegli esseri umani che smaniano dalla voglia di (r)esistere attraverso le parole e le intuizioni che consentono di non lasciare indietro i dettagli del mondo e le visioni d’insieme che lo restituiscono ai nostri occhi sotto forma di meravigliosa estasi.

Scegliere Berlino come città da esplorare per la collana “Passaggi di dogana”, a cura della Giulio Perrone Editore, è stato un compromesso con l’autrice austriaca per entrare, in punta di piedi l’una nella vita dell’altra, certe del fatto che il significato di questo gesto, si sarebbe rivelato una volta tornata a casa.

Il fantasma del testo, che appartiene alla figura della Bachmann, è per l’autrice sia espediente che ispirazione; rappresenta un appiglio a cui abbandonarsi che da al racconto quel senso di appartenenza a se stessi, che lascia le parole libere di scorrere sulla carta, a girovagare per le strade e le storie di una Berlino (non) dimenticata.

Questo narrare, alternando racconti fedeli alla storia di quel che realmente successe a rappresentazioni di ordinaria quotidianità umana, rende il testo un labile confine tra il significato letterale che le parole esprimono e il pensiero che esse rappresentano.

Nella scrittura si fa riferimento ad un sentire che si rivela sotto forma di lettere, parole, frasi in armonia tra di loro per la piena trasmissione di quello che rimane un meccanismo emotivo tipicamente e volontariamente umano.

Lo stile della Bachmann rimarca e ritorna spesso sull’utilizzo del linguaggio, specialmente quello poetico, come membrana sottile e permeabile tra la vita — vera, tangibile e banalizzata come ordinaria — e la sfumatura misteriosa ed evocativa che si confà all’opera finita.

Risulta non importante la veridicità di quelle stesse parole, rimane necessario, invece, che attecchiscano nella vita di chi ha la possibilità di leggerle. In un certo qual modo, è necessario che ci si possa ritrovare in esse, con la voglia di restare ad ascoltarle in silenzio.

Uno dei romanzi a cui si fa riferimento nel libro di Ilaria Gaspari è Malina, l’unico scritto finito da Ingeborg Bachmann, in cui vediamo un amore triangolare rappresentato da principi opposti, espressi dalla reazione che essi provocano in chi sostiene il peso di provarli.

La protagonista termina il testo, così come la storia d’amore, scegliendo di scomparire nella crepa di un muro; evocando un vero e proprio senso di profondo e condiviso, anche nell’immaginario moderno, di anatomie di rapporti e altri modi per toccarsi.

“Vivere ardendo e non sentire il male”, resta una frase d’ispirazione di Gaspara Stampa, a cui la Bachmann affida il suo costante bisogno di bruciare, contemporaneamente se stessa e quanti ha intorno, senza provare vergogna delle conseguenze che implicano il perseguire i propri ideali. La solitudine, spesso e volentieri, infatti, rappresenta più la paura dell’altro ad accompagnarci in scelte morali e difficilmente sostenibili a lungo termine.

Rimanere indifferenti a quanto scritto dalla Gaspari risulta impossibile; così come lo è non provare forti emozioni nel momento in cui – più che le sue scritture – sono le sue parole a raccontare e raccontarsi il vero significato del viaggio a Berlino, sulle tracce di questa donna a cui dovremmo guardare con tenera ammirazione.

Le parole vibrano, si innalzano, cadono, si spezzano; si muovono nell’aria con la stessa frenesia del gesticolare entusiasta con cui si perdono i passi, la testa e il cuore che, invece, rimane in ascolto.

I libri sono esseri viventi, nonché strumenti di riconoscimento di quelle peculiarità che appartengono a chi li scrive; coincidenze accidentali in cui poter cadere insieme, lasciando che il turbamento prenda il sopravvento; che il caso si esprima come un continuo moltiplicarsi di possibilità d’interpretazione d’esistenza. 

Il significato della parola coincidenza, sia in italiano che in tedesco, assume l’immagine di cadere giù insieme, la forza del coincidere sta nel potersi trovare ovunque e dappertutto.

È il luogo delle coincidenze che Ingeborg Bachmann associa alla sua Berlino; luogo di cui descrive le persone affette da una malattia dell’anima ben distante dalla sua Roma, di cui cercherà di indagare i contorni materici e quotidiani, reduci della vita altrui.

La permanenza del tempo attraverso quanto riescono a raccogliere i suoi occhi.

A Berlino il passato appare distrutto, straziato dalla tragedia del nazismo e della ferita inferta all’essere umano; mentre il presente sembra costruire le sue radici nelle cicatrici rimaste.

La percezione che le persone ne siano rimaste deformate, come stessero vivendo una convalescenza post-operatoria.

Ingeborg Bachmann impara a darsi tempo, a guardare, a soffermarsi sui momenti, soprattutto quando trascorre la sua vita a Roma, dove sembra che tutto sia già successo e le persone siano distanti e composte allo stesso tempo. 

Ed è sulla scia di questa sensazione che la Gaspari riflette su quello che è stato il suo imparare a non correre, a non cedere alle frenesie con cui la vita capitombola giù dai gradini, senza far caso a come i piedi vi si poggeranno sopra.

Per lei, percorrere la storia della Bachmann diventa un’introspezione, un potersi dedicare al camminare (una delle sue attività preferite) per entrare all’interno dell’anima pulsante della città tedesca. 

Le città sono dei personaggi, hanno un cuore che si disvela nel tempo di percorrenza con cui stendiamo i nostri passi uno dopo l’altro e Berlino non ha fretta.

Manca quel precipitare tipico dei nostri tempi moderni, si rimane affascinati dall’aleggiare della continuità che si crea tra una città dei vivi e una dei morti che vi furono.

Questo segreto che mistifica l’atmosfera non incute terrore e lo sgomento che avviene pone le sue radici nella serenità con cui si accetta il vivere.

Esistono le rovine di una vita che è stata lì ed ora e il loro sussistere, nonostante tutto, lasciando la libertà di rasserenarsi.

Ilaria Gaspari ritrova il compromesso tra la sopravvivenza e la letteratura, nel momento in cui si ritrova a Grünewald, in cerca della casa dove Ingeborg Bachmann ha vissuto.

Il quartiere sembra appartenere alle ville e ai fantasmi che si spargono sulla strada e della casa della Bachmann non si avverte l’ombra.

Un po’ come in Malina, sembra che l’autrice sia svanita – insieme a tutto quello che fu la sua vita – nella crepa dei muri delle altre abitazioni; come permeasse il circostante e diventasse anch’essa memoria storica del contingente.

Suggestionarsi, come pratica per l’assimilazione di quanto sta accadendo; e qui Ilaria Gaspari saluta il fantasma che l’ha accompagnata fino a quel momento, ritrovando le mura della casa che aveva ospitato Ingeborg Bachmann dietro le fila di altre abitazioni, di altre vite, di altre storie.

Che cosa significa allora scrivere? 

Perché tentare di rimanere impressi, se poi svaniamo tra le trame del tempo?

Scrivere, raccontarsi è andare a creare degli spazi a-temporali con il desiderio.

Ilaria Gaspari lo afferma con entusiasmo durante la presentazione; ci passa il dito più e più volte, sottolineando quanto bisogno ci sia di creare continuamente degli altrove, dentro la sua testa e attraverso i movimenti necessari che deve fare con i l proprio corpo.

Lei è in quel non riuscire a stare ferma, nella smaniosa voglia di vivere che la caratterizza, che modella senza trovare pace degli spazi in cui perdersi e poi restituire, sotto forma di vissuto.

Il desiderio – dice sorridendo – va di pari passo con l’inquietudine; una tensione verso qualcosa che si conosce man mano che si distende e nei confronti della quale, spesso, proviamo un senso di insicurezza come se non avessimo abbastanza  mezzi (umani e non) per sostenerlo.

D’altra parte La Boemia è sul mare, così come scrisse I. Bachmann e la vita appartiene a chi la sente ardere dentro di sé, a chi non ha un luogo collocato su una cartina convenzionalmente conosciuta, a chi ricorda che i luoghi altro non sono se non una percezione (alterata) dei luoghi stessi.

E il desiderio si compone anche – e soprattutto – dello slancio che ha l’immaginario nel provare la sensazione del desiderare qualcosa. La poetica che si imprime sotto pelle nel momento stesso in cui si avverte il bisogno di propendere verso un altrove non sempre tangibile.

Penetrare il mistero che aleggia su una città che si muove grazie e attraverso questo meccanismo di continuo desiderare, senza sosta, con la consapevolezza che ogni luogo sa descrivere la sua essenza tramite chi lo abita, chi ne ha scritto, chi ne scrive tutt’ora, attraverso la combinazione di questi fattori all’interno di ciò che diviene quotidianamente ordinario. 

A Berlino con Ingeborg Bachmann nella città divisa, (de)scritto dalle parole di Ilaria Gaspari (leggibili e udibili), appare come un continuo e perpetuo sconfinare e confluire. Esso lascia che la vita si macchi di esperienze con cui rendersi su carta, attraverso la quale le persone possono guardare a Berlino come un essere umano di cui ascoltare le sfumature e le disperazioni, i vuoti e la nostalgia malinconica. Il tempo appare differente, infatti,  dalla concezione cronologica a cui siamo abituati.

Dovremmo accorgerci, come sottolinea l’enfasi bambina di Ilaria Gaspari, che siamo in continua osmosi con quanto ci permea e con quanto ci circonda, con ciò che ci meraviglia e con ciò di cui potremmo aver paura.

Sconfinando, nel suo senso tragico, in un profondo costante in cui lasciarsi naufragare, riscoprendo la bellezza di poter affermare serenamente che La Boemia è sul mare.

I luoghi non sono forse la nostra percezione (alterata) dei luoghi stessi?