Manetti Bros., un cinema di devozione e di leggerezza

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Nel dicembre 2021, un adattamento cinematografico del celebre fumetto Diabolik esce nei cinema; una mosca bianca fra i titoli di produzione italiana, perlomeno negli ultimi cinque anni. La pellicola, prevedibilmente, ha suscitato un discreto scalpore, non solo per la scelta di riproporre oggi l'iconico personaggio creato dalle sorelle Giussani nel 1962 (ben 53 anni dopo l’ultima trasposizione) ma anche per la scelta di conferire ai personaggi come Diabolik, Eva Kant e Ginko i volti di attori di spicco come Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastandrea.

Mosse come queste, ci insegnano alcuni esempi recenti, si possono rivelare rischiose: si tenta di riportare in auge un prodotto nato sessant'anni fa, cercando di coniugare le esigenze di uno zoccolo duro di fan pluridecennali e un pubblico di spettatori nuovo e non “iniziato” al fumetto, il quale si aspetta una storia che regga e trascini, indipendentemente dal prestigio di un nome. E’ una sfida dalle ridotte probabilità di successo, rese ancora più ridotte dal generale scetticismo che si è creato in questi anni attorno a risurrezioni malriuscite di prodotti passati dal cinico appiglio nostalgico. Da questa sfida, però, i due simpatici registi romani Marco e Antonio Manetti, classe ’68 e ’7o,  non si tirano indietro; durante l’evento che li ha visti protagonisti, domenica 22 Maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino, annunciano che sono attualmente in produzione ben due sequel consecutivi di Diabolik, con l’attore Italo-canadese Giacomo Gianniotti (noto per Grey’s Anatomy) a rimpiazzare Marinelli nei panni del protagonista.

A proiettarli avanti nella loro carriera di produzioni alquanto insolite nel nostro cinema non è, effettivamente, un desiderio di innovare, di rompere gli schemi o di distinguersi dagli altri. Loro ricusano esplicitamente l’epiteto di “provocatori”, di voluti e spinti “anti-conformisti”, così come quello di esponenti del cinema “di genere”.

«Di genere», ci ricorda Marco Manetti, «è un modo utilizzato per classificare tutte le opere cinematografiche che non appartengono ai principali tre filoni delle narrazioni nostrane: la commedia, la storia di denuncia sociale e il dramma romantico-familiare. Un’espressione che, probabilmente, nasce dalla concezione di generi come il noir, il thriller o il fantastico — i quali vengono considerati  come troppo specifici e caratteristici, poco a contatto con la normalità e più “di nicchia”— ma che, dopotutto, finisce per ghettizzare, paradossalmente, il nostro stesso mainstream.»

«Sono proprio coloro che non fanno roba cosiddetta di genere», osserva infine Marco, «a essere più attinenti e ingabbiati ai confini del genere». 

Per i fratelli queste limitazioni, le prescrizioni dei tropes, sono linee con cui giocare e opportunamente, da sorvolare in libertà.

Viene loro chiesto cosa li spinge a ideare e portare sullo schermo opere così vulcaniche e culturalmente eterodosse come Ammore e malavita — un gangster-musical su un boss della camorra napoletana e sulla sua (dis)avventura in cerca di uno scampo dalla vita criminale —, vincitore di un David di Donatello. La loro risposta a questa domanda ovvia ma legittima è semplicemente che a loro, in qualche modo, questo tipo di creatività viene spontanea; una spontaneità nello sperimentare e nello scegliere ingredienti diversi, in grado di accalappiare l’ingegno senza riserve o formalismi. Insomma, un cinema di devozione e di leggerezza. 

Non nascondono che la loro forza primaria, il sostentamento che rende tante idee “improbabili” più concrete, è la loro fratellanza, biologica ma anche artistica e spirituale. Si fanno forza l’un l’altro, proteggono l’innocenza della propria creatività prima di offrirla al giudizio del mondo. Un ostacolo, quello dei conflitti con produttori e datori di lavoro esigenti e conformisti, su cui i due registi hanno molto da dire. E’ stato grazie allo stesso David che i Manetti hanno ottenuto la possibilità di proporsi per adattare Diabolik, di cui già numerose trasposizioni cinematografiche sono state proposte e rifiutate. Il plauso ottenuto ha dato agli occhi del pubblico il giusto peso e credito alla loro impronta autoriale. 

Ma la loro originalità non sempre viene premiata. Il migliore esempio del rischio intrinseco dell’essere autentici è, per loro, il film Zora la vampira (2000), una commedia horror che vede come protagonista niente di meno che il Conte Dracula, il quale non si trasferisce a Londra bensì in un’Italia dei tempi moderni, finendo, per questioni economiche, a vivere da extra-comunitario e ad innamorarsi, in un centro sociale, dell’affascinante Zora. 

Il film sperimenta una sorta di rivisitazione parodistica della storia originale, colma di riferimenti culturali sugli anni ’90,  rivolgendosi alle sonorità musicali del rap/hip-hop italiano di quel periodo. Seppur prodotto da Carlo Verdone e caricato di grosse aspettative, il film si rivelò — parole loro — “un vero fiasco". Eppure, non tutto il male viene per nuocere, infatti, la loro svolta artistica nasce proprio da questo imprevisto scivolone. I Manetti, delusi, compresero ben presto di doversi scrollare di dosso ambizioni imposte dall’esterno e budget di produzione troppo elevati: il loro ethos lavorativo, adesso, consiste nell’utilizzare soltanto le risorse necessarie a realizzare la loro visione, né di meno né di più; una scelta che, come fanno umoristicamente notare, sconvolge molti dei loro colleghi. D’altronde, mantenere una sfacciata libertà artistica in un paese noto per tarpare le ali a chiunque la coltivi (e che, quindi, genera un facile circolo vizioso di auto-soppressione) facilmente genera sconvolgimento. 

Un altro buffo aneddoto riguarda una delle loro più famose creazioni, la fiction Rai L’ispettore Coliandro, un esempio di come il loro spirito naturalmente innovativo e dissacratorio sappia trasfondersi anche su strutture narrative diverse. Persino in Rai, infatti, i due fratelli sono riusciti a impressionare la rete, proprio grazie alle riprese della serie, nella quale viene fatto un frequente uso di sequenze al rallentatore, una tecnica di ripresa inusuale nell’ambito della fiction. Questo è un esempio emblematico, non solo della sete di novità che piaga il palinsesto televisivo nazionale - in cui anche qualcosa di così ordinario come il ralenti diventa contro-tendenza - ma anche della loro fantasia pura e sbrigliata. 

I Manetti bros, tuttavia, non pretendono né di essere originali, né di costruire nuovi generi: tutto ciò che mettono nei loro film esiste già, è sotto gli occhi di tutti e, sopratutto, è disponibile per essere usato e rimestato in una forma nuova. 

Il loro citazionismo un po’ tarantiniano agli horror a-là Dario Argento, alla sceneggiata napoletana e al crime-noir di Diabolik — che possa andare a genio o no al grande pubblico o alla critica più altezzosa — trova le sue radici in un’innegabile amore per il cinema, i libri e i fumetti; per le storie in generale e per la loro profana sacralità.

Che poi, come effetto collaterale dei loro sforzi creativi senza pretese e delle loro muse, nascano film che effettivamente rivoluzionano o danno respiro al nostro cinema, non possiamo che esserne soddisfatti. Antonio Manetti, a questo proposito, raccontandoci di Zora e di Coliandro, non perde occasione per incoraggiare, infatti, a credere nelle proprie idee e a dimenticare il preconcetto infondato che spesso vede impossibile il dialogo fra autori, creativi  e produttori. 

Da questo incontro, non si può che uscire speranzosi quindi, ma sopratutto con la consapevolezza che, costruendo ed elaborando al meglio le proprie idee, mantenendo autentica e significativa la propria visione da autore, gli aspiranti creativi, come il sottoscritto, avranno sempre la possibilità di realizzare le proprie visioni; visioni che, forse, non sono così lontane come pensiamo.