Cromatismo di un genio

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Quando ci si approccia ai libri, sicuramente, quello su cui lo sguardo si posa fin da subito è la copertina, corredata di un titolo, più o meno lungo; gli scritti dell’autore, critico e cinefilo Emanuele Rauco hanno una capacità persuasiva proprio su questo fronte: si tratta di un doppio tomo, ciascuno intitolato rispettivamente Bigger Boat. Il senso della meraviglia nei film di Steven Spielberg Blinded by the Light. La meraviglia del senso nei film di Steven Spielberg.

Leggendoli, a primo acchito, ci si potrebbe forse confondere, pensare a uno strano gioco di parole, ma in realtà tal scelta ha i suoi motivi, come emergerà da questo lungo flusso verbale.

L’idea di scrivere tali libri nasce dalla consapevolezza, intanto, dell’assenza di una letteratura cinematografica sul regista, sceneggiatore e produttore originario di Cincinnati all’interno del panorama italiano. La casa editrice “Bakemono Lab”, con cui Rauco aveva già lavorato, decide di ricontattarlo per pubblicare una nuova opera e quest’ultimo viene ispirato da un’idea che viene accettata con entusiasmo: scrivere e pubblicare riguardo Spielberg, uno dei suoi idoli. Con questa iniziativa ben definita, inizia a delineare un piano d’azione, partendo dalla selezione dei lungometraggi da inserire; l’autore però non vuole fare sconti: li vuole inserire tutti!

Essendo il contenuto corposo, Rauco crede sia meglio dividere lo scritto in due libri, scelta condivisa poi, a sua volta, dalla casa editrice collaborante. Ecco che il progetto vede il primo volume concentrarsi su tutti quei film che hanno cambiato il mondo del cinema, così come la modalità di visione degli stessi spettatori. Dunque, si tratta di opere rinomate per la loro grandezza, soprattutto perché circondate da un’aura suggestiva, in cui il fantastico e l’immaginazione fanno da protagoniste; si rammentino E.T. the Extra-Terrestrial Jurassic Park. Il secondo, invece, si occupa dei lungometraggi che hanno dato a Spielberg rispettabilità, ma allo stesso tempo hanno lasciato il pubblico perplesso, a causa della loro serietà, come fosse quasi un fulmine a ciel sereno; è il lato più riflessivo, quello che mostra le ombre della nostra società, con protagoniste politica e guerra, proprio come in Schindler’s List Saving Private Ryan.

Le due facce sono sempre parte della stessa medaglia, perciò si arriva al concepimento dei titoli citati in precedenza: il primo fa riferimento a una frase espressa all’interno del film Jaws, si aggancia al senso della meraviglia per ciò che viene  mostrato sul grande schermo, trasmettente reazioni di stupore; il secondo riprende il titolo di una canzone di Bruce Springsteen, ricollegandosi alla consapevolezza del cineasta nel prendere una determinata direzione nella propria vita, discostandosi dal passato, mostrando lati più profondi, in cui la meraviglia la si trova nel senso vero e proprio. Nella stessa maniera in cui si spalancano bocca e occhi per lo stupore, anche la mente appare aperta e ricettiva; si tratta di un’esperienza complessiva in cui non si esclude alcunché.

Spielberg si è preoccupato d’inventare dei generi, rielaborando quelli che, a modo suo, erano dei classici. Andando avanti con la sua carriera, è riuscito a creare la cosiddetta commedia sofisticata, con un film come Catch Me If You Can The Terminal, è riuscito a realizzare film storici, come Empire of the Sun oppure Lincoln; infine il genere fantascientifico, che è uno dei suoi principali, raggiunge vette ancor più alte con War of the Worlds, una rielaborazione apocrifa del celebre western The Searchers firmato John Ford.

Il suo successo è rinomato, tanto da essere acclamato dall’“Academy” statunitense; ciò però non sembra entusiasmarlo fin troppo, poiché crede che il suo successo sia riconosciuto solo per una questione di guadagno, non tanto per la qualità dei suoi prodotti. Il caso, però, vuole che un giorno si ritrovi tra le mani il romanzo dell’autrice Alice Walker, The Color Purple, che lo convince a creare un lungometraggio basato sulla storia narrata all’interno del libro. La trama di per sé drammatica, contiene, allo stesso tempo, un’esplosione di gioia, di vita e di colori, di forme cinematografiche che richiamano una Hollywood ai suoi esordi, con riferimenti al genere del musical; la protagonista interpretata da Whoopi Goldberg, che vede il mondo circostante attraverso gli occhi di una bambina, trasforma il tutto quasi fosse una fiaba.

Steven Spielberg è forse l’esempio per eccellenza di colui che gioca con il cinema, non perde mai il gusto e la voglia di donare una sorta di leggerezza nel suo operato. Eppure, dal film A. I. Artificial Intelligence l’atmosfera muta, prendendo una piega più cupa e straziante, quasi come se si trattasse di un racconto scritto dai fratelli Grimm. In un certo senso, se si conducesse un’attenta analisi, già diciannove anni prima E.T. richiama il tema dell’immigrazione, con le sue conseguenti ombre: la xenofobia, l’affezionarsi a coloro che poi, purtroppo, bisognerà salutare, anche per sempre, nel caso di ritorno al proprio Paese d’origine, il tema della violenza razziale.

L’artista è solito mettere costantemente del proprio nelle sue opere, in ogni suo artificio ha posto un pezzetto della sua vita e della sua formazione cinematografica. Quella che si potrebbe considerare la triade spielberghiana è l’adunanza di John Ford, Alfred Hitchcock e Frank Capra, icone del grande schermo.

Gli attori e i personaggi che vengono rappresentati nei suoi film sono caratterizzati da un peculiare simbolismo: rappresentano un modello classico e tradizionale dell’uomo, come figura portante, eroica, attraente, ma, allo stesso tempo, fungono come strumento narrativo, per far godere il viaggio agli spettatori, senza dare grande importanza alla destinazione. 

Altro aspetto molto interessante è che Spielberg sembra rappresentare nuovamente, a distanza di anni, un concetto più moderno di “nouvelle vague”, proprio per le sue grandi doti venute alla luce in breve tempo, pur non avendo un’esperienza precedente nel campo di chissà quale spessore; la dice lunga il fatto che si sia finto un dipendente degli Universal Studios e tutti gli abbiano creduto, per poi rimanere stupiti solo alla fine, quando si è scoperta la farsa. 

Si rammenti inoltre che lui è parte del gruppo di novizi hollywoodiani conosciuto come “The Movie Brats”, composto anche da George Lucas, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese e Brian De Palma. D’altronde, un nome, una garanzia.