"Amatissime", intervista a Giulia Caminito

Scritto da

“Sono cresciuta con una grande fotografia di Elsa Morante appesa in casa, quando ero bambina e nell’immagine la vedevo intenta a passeggiare, pensavo fosse una nostra parente di cui solo io non conoscevo il nome”. 

La prima delle cinque amatissime è Elsa Morante. Ma lo “scrittore” non è solo una delle prime scrittrici da te incontrate nello studio della letteratura italiana, è anche una dei primi esseri umani che abitano lo spazio della tua casa e, dunque, la memoria visiva di te bambina. 

Elsa Morante muore a Roma nel 1985, e, nella stessa città, tre anni dopo, vieni alla luce tu.                    

Mentre, ancora bambina, vaghi per gli spazi della tua casa, incominciando a scoprire il mondo che ti sta attorno — guardandolo, toccandolo e annusandolo—, inciampi più volte di fronte a una fotografia di grandi dimensioni, che ritrae proprio Elsa Morante, sui cui scritti tua madre improntò la tesi di laurea, nell’anno accademico 1974-1975. La fotografia viene tenuta eretta come se fosse l’effigie di una santa e, in qualche modo, per tua madre la sua figura letteraria è sacra davvero, in quanto “decisiva ed esplosiva” nei suoi studi universitari. Anni dopo, quando inizi a lavorare nell’editoria, l’appartamento che affitti, insieme a due tue amiche e compagne di vita, si trova proprio a Testaccio, nel condominio dove, come indica una targa all’ingresso, visse Elsa Morante, “una mente visionaria, un profondo sentimento del dolore”. E persino una volta cambiata dimora, in palazzo ci ritornerai una volta a settimana, per i colloqui con la tua analista.                                                                                                                          

Ci sono molte coincidenze nel tuo incontro con la figura di Elsa Morante, molte cose che ritornano e si spostano da una vita all’altra. Tuttavia, tu stessa scrivi che se, in un primo momento, eri convinta che le coincidenze fossero delle vere e proprie “epifanie”, dei “ritorni magici” attraverso cui il mondo ti confermava che stavi facendo una scelta giusta, in un secondo momento, invece, forse proprio grazie all’analisi affrontata nel condominio di Testaccio, hai capito che le tue coincidenze “non sono altro che volontà, incapacità di lasciare andare”. Ecco, perché è così difficile lasciar andare Elsa Morante? E lasciare andare l’infanzia, tua e di Elsa, che descrivi in questo primo capitolo?

Credo che Morante rappresenti il legame stretto tra me, mia madre e la scrittura. Mia madre, infatti, si è laureata su Morante e l’ha sempre amata molto. Ne ha letto tutte le opere e l’ha considerata per tutta la vita un riferimento. Mamma ha sempre scritto, soprattutto libri per bambine e bambini, e sono cresciuta con l’idea che scrivere fosse parte della quotidianità, così come la lettura. Sono però approdata alla mia scrittura dopo l’adolescenza e ho sempre avuto il dubbio di non essere all’altezza delle aspettative di mia madre o delle sue grandi maestre come Morante, dubbio che mi segue ancora. Non ho mai voluto per questo scrivere o parlare di Morante. Mi sono limitata a leggerla, fino a qualche anno fa, quando ho scritto un testo breve per una serata a lei dedicata e, da lì, mi sono accorta di quante volte l’avessi incrociata sul mio cammino. È venuto spontaneo partire da questi punti di contatto e raccontarli dall’inizio, a partire dalla mia infanzia e anche dalla sua.

Dall’infanzia si passa all’adolescenza, o meglio, alla fine dell’adolescenza; e alla scelta dell’università, a cui ci si affaccia a conclusione della maturità, con paura e ansia. A volte con certezza di star sbagliando strada. Davanti al bivio tra portare avanti la tua passione per i tessuti e la moda, frequentando un’accademia di moda, o continuare a studiare una materia che al liceo ti aveva affascinato, la filosofia, prendi la seconda scelta. Ma sarà una scrittrice a riconciliarti con la prima parte di te stessa: Paola Masino, che nel suo Album di vestiti (pubblicato postumo nel 2015) “ha fatto emergere i ricordi di vita in un memoir delizioso e profondo, proprio a partire dagli abiti indossati”. 

Si ha paura di scrivere di abiti e di moda perché si ha terrore di essere accusati di possedere uno spirito leggero, frivolo, inconsistente, troppo legato alle apparenze e non alla sostanza. Tuttavia, come ci dimostra la scrittura di Paola Masino, e la sua stessa vita, gli abiti che noi indossiamo o che gli altri ci fanno indossare, hanno un significato più importante e nascosto di quanto uno possa credere. E spesso è proprio dall’abbigliamento che ha inizio una delle prime rivoluzioni della nostra vita, quando, stanchi di indossare gli abiti che sono soliti acquistare e farci indossare i nostri genitori, decidiamo di essere noi a scegliere, così come sarà poi nostra la scelta dell’università.

Ma, come sembrano indicarci gli scritti di Paola Masino, a ogni epoca dell’esistenza corrisponde un abito, e a ogni periodo della vita coincide un colore, che è, prima di tutto, un modo di sentirsi dentro. L’autrice di Nascita e morte di una massaia, dopo la morte del padre, nel 1943, e poi, nel 1960, dell’uomo della sua vita, Massimo Bontempelli, comincia a vestirsi di nero a lutto, perché il lutto “ormai in disuso tra i molti, è un modo per avvertire gli altri e proteggerci da eventuali urti”. Il nero pretende silenzio e rispetto davanti alla rumorosità di un mondo troppo colorato. Tu, invece, scrivi di aver scelto il nero come tuo colore d’elezione attorno ai venticinque anni, non perché il nero fosse il colore del lutto, ma perché avevi cambiato lo sguardo su te stessa. Entrambe, per scelte diverse, approdate, a età diverse, al colore nero. Quanto questo tuo avvicinamento al colore nero e, quindi, questo diverso sguardo su te stessa, è la conseguenza dell’approfondimento degli studi letterari, e anche storici? Penso a quando scrivendo il tuo secondo romanzo, vieni a conoscenza dello scippo da parte di Mussolini del nero anarchico e carbonaro che divenne il nero intransigente del fascismo …

In realtà sono arrivata al colore nero in maniera autonoma, per gusto personale. Ho sempre trovato che, avendo io la pelle molto chiara, anche in estate, il nero creasse un contrasto che, quando indossato, mi fa sentire a mio agio. I colori, al contrario, soprattutto quelli chiari, non mi valorizzano. Poi quando ho studiato l’anarchia per scrivere Un giorno verrà mi sono appassionata alla storia del colore, al suo valore politico e storico. Leggendo Masino ho potuto continuare a ragionare sul significato del colore nero nell’abbigliamento e sulla forza del lutto. Veniva indossato per difesa e per segnalare il dolore, una cosa che oggi abbiamo quasi del tutto abbandonato. Poi è un fatto storico acclamato che l’associazione del nero con il Fascismo sia dovuta a una ruberia di Mussolini. Il duce prese molti riferimenti della cultura socialista e anarchica (che aveva conosciuto come militante da giovane) per dargli un senso diverso, legato alla sua idea di politica e di Italia , nonché ai metodi coercitivi che ha esercitato.

A volte, a confrontarci con i grandi, ci si sente piccolissimi, vulnerabili e più fallibili del solito. Quando inizi a lavorare in casa editrice, ti senti come un “corpo esterno”, come un’“intrusa” e trovi una libertà antica unicamente nelle ore trascorse in biblioteca a fare ricerche su recuperi letterari. Nella difficoltà del lavoro, il tuo pensiero va alla madre di tutte le donne che lavorano, e hanno lavorato, in una casa editrice, ovvero Natalia Ginzburg. Ma la stessa scrittrice, che iniziò a partecipare alle riunioni dell’Einaudi quando il marito Leone Ginzburg era ancora in vita, restava in silenzio durante i primi colloqui di redazione, lasciando la parola agli uomini. Anche quando divenne una delle poche donne di rilievo nell’editoria italiana, dovette sostenere il peso di aver ottenuto un ruolo di prestigio perché vedova di Leone Ginzburg, o peggio, per una sorta di pietà e misericordia nei suoi confronti. Tuttavia, Natalia fu capace di piegare quel “destino” alla propria visione e al proprio talento. Presto cominciò a prendere la parola e, spesso, a contraddire i suoi colleghi uomini nelle loro decisioni. Scrivi che ti sarebbe piaciuto avere vicino Natalia per chiederle di giudicare il tuo operato, l’operato di una ragazza di vent’anni che si sente spersa e sotterrata dal baratro del paragone. Oggi, dopo la pubblicazione di quattro libri e una lunga esperienza lavorativa nell’editoria, ti sentiresti più forte di fronte a Natalia Ginzburg? 

Non credo che mi sentirò mai abbastanza forte, ed è anche giusto così. È giusto provare a capire se siamo deboli, quando siamo incerti; avere dei miti e delle leggende, sentire addosso la pressione del passato per provare a migliorarsi, a impegnarsi e a confrontarci con la nostra piccolezza. Natalia Ginzburg è, tra le cinque, la scrittrice che io sento più vicina, che preferisco per stile e temi, ma anche per via della sua personalità importante e di impatto per il mondo dell’editoria. Ha saputo raccogliere l’eredità di Leone Ginzburg imprimendo il proprio stile, la propria capacità. Era una grande lavoratrice, presente, attenta e minuziosa nei suoi pareri, decisa nelle scelte editoriali. Veniva da un mondo politico e letterario che oggi non esiste più e con cui confrontarsi è davvero difficile. È difficile non pensarsi minuscoli e poco vigorosi di fronte a lei. Nonostante questo, continuo a lavorare e a provare, a mettermi sotto accusa ma anche a cercare soddisfazioni.

La lettura di un libro, trovato tra gli scaffali della Biblioteca Nazionale di Roma, genera nella tua testa un mistero. Il libro è L’adultera, romanzo – sconosciuto ai più – pubblicato nel 1964 dalla – anch’essa sconosciuta ai più – scrittrice Laudomia Bonanni. E il mistero è, per l’appunto, “perché di una scrittrice così non avevo mai – proprio mai – sentito parlare?”. E il quesito che segue: “di chi altro non mi hanno mai parlato?”. “Come funziona questa regola dell’oblio, chi la decide?” ti domandi, intuendo già allora che fossero soprattutto i romanzi delle donne a essere dimenticati, dal momento che la letteratura è sempre stata “degli” uomini. 

Verso la conclusione del capitolo dedicato alla scrittrice aquilana, indaghi le motivazioni del duplice rifiuto che conobbe il suo ultimo romanzo, La rappresaglia. Probabilmente proposto a Mondadori nel 1949, e sicuramente nel 1985 a Bompiani, fu respinto da entrambi gli editori. Dopo aver cercato con insuccesso di pubblicarlo, Laudomia prende la decisione di non scrivere più e distrugge la maggior parte delle sue carte. 

Le ragioni del rifiuto sono probabilmente da ricercare nelle tematiche affrontate nel romanzo — in particolare nel modo critico e ambiguo in cui la Resistenza viene trattata —, che trasformano la donna partigiana in una donna colpevole e un gruppo di fascisti in un manipolo di semplici. Sappiamo inoltre che, durante la sua giovinezza, Laudomia Bonanni aderì al fascismo e, pertanto, il suo romanzo avrebbe potuto chiamare in causa il terrore del revisionismo.

È innegabile come ancora oggi noi, figli e figlie dell’antifascismo, facciamo fatica ad accettare che grandi scrittrici e scrittori siano stati fascisti. Ma, dunque, l’oblio assoluto in cui è caduta la figura letteraria di Laudomia Bonanni è dovuto anche (o sopratutto) alla sua vicinanza al regime fascista? O più che altro a una sua incapacità di sostenere il nuovo modo di fare letteratura e di essere letterati nel secondo dopoguerra? 

Dipende da tanti fattori. Le donne del Novecento sono state di certo dimenticate più degli uomini. Si sono inabissate con la loro scrittura, tranne in rari casi. Lei, inoltre, veniva dalla provincia e, nonostante si fosse trasferita a Roma, non si trovava a proprio agio nella società letteraria romana. Aveva poche amiche, come Maria Bellonci. Negli anni ’80 cambiarono parecchie cose nell’editoria, divenne più dipendente dal marketing e certe novità Bonanni non riusciva a sopportarle; le era difficile stare al passo coi tempi e con le pretese del mercato. Scrittrici e scrittori iniziavano a puntare più di prima sulla promozione dei libri, e lei era una donna schiva e che non amava parlare costantemente in pubblico. Di certo, anche se la sua carriera da scrittrice è iniziata davvero dopo la guerra, quel legame col fascismo è rimasto come macchia nella sua biografia. Era una maestra dei paesini abruzzesi e non possiamo sapere quanto la vicinanza col fascismo fosse una questione di ideali e quanto di necessità, ma quando era giovanissima scrisse molto per il regime. La vicenda relativa al romanzo La rappresaglia fa ben capire cosa vuol dire sentirsi messe all’angolo, sentirsi sconfitte dal mondo letterario: una paura che penso abbia chiunque di noi scriva e alla quale è difficile difficile sottrarsi. Un libro di successo non fa una carriera, né da certezze, e Bonanni ce lo insegna.

La quinta “antenata e madre di penna” è Livia De Stefani. Nata a Palermo ma trasferitasi a Roma, Livia De Stefani è considerata una delle prime, tra scrittori e scrittrici, a essersi occupata di criminalità organizzata in un romanzo. Tuttavia, nonostante i suoi libri siano stati pubblicati dai maggiori editori, Mondadori e Rizzoli, ottenendo  importanti apprezzamenti – di Ignazio Silone, ad esempio – oggi, la scrittrice è ignota ai più. La domanda che poni a te stessa, e di conseguenza ai noi lettori e lettrici è quindi: “come si fa a tenere in vita una scrittrice?”. Davanti ai sei scatoloni che tieni in un angolo della stanza, e che contengono tutte le carte della scrittrice palermitana, le perplessità sono molto più numerose delle certezze: “Livia avrà voluto proprio questo, avrà mai pensato a un dopo […] esisteva nella sua mente l’idea di riscoperta, quella di recupero letterario, voleva essere mostrata, letta, anche nei dettagli più intimi, anche nelle pieghe più dolorose e nei retroscena, voleva arrivare tra le mie mani”.

Fino a che punto può spingersi la studiosa “desiderosa di essere allieva”, per far conoscere al pubblico di lettori e di lettrici l’opera della sua maestra? Può sbirciare in maniera furtiva,  nella valigetta portata dalla scrittrice su un tram cittadino? L’atto di studio e di ricerca è un atto di violenza? 

Non è facile rispondere, perché se da una parte chi scrive letteratura considera tutto come campo di studi — e quindi patrimonio culturale di indagine, anche approfondita —,  dall’altra credo vada mantenuto un senso di pudore nei confronti delle biografie del passato. Non parlerei però di violenza, sinceramente. Più che altro, nel libro mi domando fin dove possiamo spingerci e se, quando lavoriamo su una scrittrice dimenticata, stiamo effettivamente facendo quello che avrebbe voluto, oppure se avrebbe preferito l’oblio, la pace, l’assenza di letture. Diamo per scontato che la visibilità sia sempre da perseguire, ma non è detto che sia così e che sia sempre giusto, anzi. In questo ultimo capitolo volevo raccontare il tema dell’eredità e tutti i dubbi che si porta dietro, sia rispetto alla mia scrittura che a quella delle autrici e degli autori che amo e studio. Racconto le mie paure sulla memoria letteraria, sul rapporto intimo con queste autrici. Io le sento parti del mio percorso, care, vicine e affini, ma chi mi dice che loro avrebbero ricambiato?