Mi sono imbattuto in questo termine per la prima volta quando YouTube mi ha suggerito un video: è un grazioso cortometraggio di animazione chiamato “Dear Alice”.
Puoi trovarlo qui
Il corto ci mostra una scena di vita in una tenuta di campagna, in uno scenario a metà tra una quiete bucolica e una fantascienza luminosa. La proprietaria della tenuta si occupa di svolgere le sue mansioni: coglie pesche da un frutteto rigoglioso usando i tentacoli di un raccoglitore robotico, manda sua figlia a scuola in uno scuolabus volante, irriga i campi con l’ausilio di congegni antennali che evocano nuvole e pioggia dal nulla, cucina e serve il pranzo (usando pentole e utensili automatizzati e olografici) a una tavolata di persone di ogni età, genere e colore della pelle, radunate in allegria. Il paesaggio è disseminato di pale eoliche, pannelli solari, aerostati, e nello sfondo notiamo una metropoli dal profilo futuristico. Il prato abbraccia tutti questi strumenti umani, come se fossero sempre stati lì, e ci viene data l’impressione di un’indissolubile armonia tra uomo e natura.
E’ stato realizzato dalla società di produzione The Line che ha reso disponibile sulla propria pagina Facebook una versione estesa con contributo musicale di Joe Hisashi, il compositore noto per aver orchestrato i più grandi film dello Studio Ghibli. Per chi ha familiarità con i film di Miyazaki non sarà difficile notare una certa somiglianza fra la poetica visiva dei suoi mondi animati e quella di questo cortometraggio.
La versione che ho linkato qui riporta nel titolo la definizione «atmosfera Solarpunk». Che cos’è il Solarpunk?
Per capirlo meglio, facciamo un passo indietro.
La parola “punk” com’è conosciuta oggi nasce, si ritiene, come un insulto slang per indicare un teppistello, un individuo buono a nulla, un reietto, non conforme, ai margini della società. Non c’è da sorprendersi dunque che un concetto come questo sia associato al movimento giovanile anni ‘70/’80, con la sua musica, la sua arte, la sua filosofia e la sua estetica che segnerà gli anni a venire. Il punk è anti-capitalista, è radicalmente anti-sistemico e anti-moralista, provocante e distruttivo; celebra le esistenze proprio di chi vive ai margini, di chi non sottostà alle regole della normalità, in un’epoca (soprattutto gli anni ’80) di crescente accelerazione delle tecnologie e del consumismo in tutto il mondo.
In questo scenario, si sviluppano le basi per quello che viene cyberpunk: un sottogenere della fantascienza rimasto iconico nei decenni seguenti. Il cyberpunk dipinge uno scenario di futuro fortemente cupo: un mondo dominato da una tecnologia invasiva, dalla tirannia di potenti imperscrutabili, da una decadenza della società e della sua morale. I suoi protagonisti, spesso hacker (figure che hanno acquistato rilevanza culturale con lo sviluppo informatico), vivono proprio come i “punks” ai margini della società: soli, frustrati, incupiti, paranoici, sessualmente frustrati, a volte anche vessati dall’uso di narcotici. La loro missione è quella di creare scompiglio, di fare breccia nello status quo; non sono mai, tuttavia, smossi da un desiderio di migliorare la società. Il cyberpunk è fondamentalmente nichilista, e questa è la fondamentale differenza con la comune distopia: non c’è un malvagio governo a manovrare il tutto, anzi i governi sono spesso deboli e impotenti e servono un élite di capitalisti; non c’è una luce alla fine del tunnel, ma soltanto il cinico e cupo desiderio di (letteralmente o figurativamente) guardare il mondo bruciare. L’estetica futuristica dark, dalle tipiche capigliature androgine e policrome, il pervasivo bagliore di luci al neon, tutti questi elementi nascono da questa fantascienza e continuano a influenzare l’immaginario collettivo anche oggi.
Il primo bizzarro discendente di questo sottogenere, nonché il più famoso, è stato lo steampunk. Un nome che è stato attribuito in modo ironico come variante del cyberpunk per definire un tipo di fantascienza “retro-futuristica”, che volge cioè lo sguardo verso il passato e lo proietta verso un futuro alternativo. Lo steampunk prende un setting ottocentesco (in particolare l’Inghilterra vittoriana e l’America del far west) e vi inserisce un arsenale di tecnologie avanzatissime ma costituite con gli strumenti noti allora: vapore che propelle potentissime aeronavi, robot e macchine da guerra mossi da ingranaggi di metallo e alimentati a carbone, computer meccanici analogici e castelli volanti. Lo steampunk si inserisce in un filone di narrativa “speculativa”, che ipotizza cioè versioni alternative della storia: un futuro come fosse immaginato nel passato. E’ un genere che personalmente, nelle sue molteplici forme, trovo irresistibile: la sua fusione ucronica di epoche diverse, il suo sapersi astrarre dalla gravosa critica sociale del cyberpunk, la sua fantasiosità quasi sfacciata nel tracciare ponti inesistenti tra ciò che eravamo e ciò che potremmo essere; una costruzione fantascientifica escapistica, che però riesce a essere profonda, magica e confortante.
A partire questi due generi è stata definita una vera e propria tassonomia di altri sottogeneri che incorporano il suffisso –punk.. Eccone alcuni esempi fra i più rilevanti:
- Biopunk: simile al cyberpunk, ma concentrato sugli aspetti come virus, clonazioni, manipolazioni genetiche in un futuro avanzato.
- Dieselpunk: un retro-futurismo che guarda ai primi del novecento: art-déco, industrializzazione, i primi motori, il cinema in bianco e nero e un’oscura atmosfera bellica.
- Atompunk: l’estetica fantascientifica più naïve per noi oggi, nata dall’immaginario anni ’50 di un futuro ottimista: dischi volanti, grattacieli dalle forme astruse, auto fluttuanti e cosmonauti in tute full-body colorate. Ispirato molto allo stile dei primi fumetti di supereroi.
- Mythpunk: il più radicale fra tutti. Una rivisitazione delle fiabe, dei miti e delle storie di folklore con l’aggiunta di elementi futuristici e la sostanziale rivisitazione dei suoi temi in chiave postmoderna, femminista, spesso volta all’introspezione.
Possiamo notare in tutti questi generi un forte elemento di controcultura, una ricerca di un’estetica nuova che attinga a immaginari diversi, stranianti, anche se il suffisso –punk (un po’ come il punk stesso…) ha perso la sua connessione con i suoi valori d’origine. Di questi sottogeneri ne esistono tanti altri, molto più astrusi e poco usati di questi. Ma soffermiamoci su uno in particolare: il Solarpunk.
Al contrario dei suoi simili, è un vero e proprio movimento ufficiale con un suo manifesto:
“Il solarpunk è un movimento di narrativa speculativa, arte, moda e attivismo che cerca di rispondere e di rappresentare la domanda “Che aspetto ha una civiltà sostenibile, e come possiamo raggiungerla?”. L’estetica del solarpunk unisce il pratico con il bello, il ben concepito con il verde e il lussureggiante, il vivido e colorato con il terreno e il solido. […]”.
“Siamo solarpunk” continua il manifesto “Perché l’alternativa è il diniego e lo sconforto”. Il mondo migliore che questo movimento auspica è un mondo senza confini e divisioni fra esseri umani, libero dal capitalismo, dall’avidità, alimentato in perpetuo da energie rinnovabili e in perfetta armonia con la natura. Un’utopia green che questi autori vogliono far germogliare artisticamente per conquistarci, per ispirarci a renderla realtà. Vogliono che sia un contrappeso culturale al cyberpunk, e in generale al pessimismo della nostra epoca.
Ora, c’è un aspetto che finora ho omesso: il cortometraggio “Dear Alice” è uno spot pubblicitario di un’azienda di yogurt americana. Nella versione linkata qui sopra il marchio del prodotto è stato digitalmente rimosso da tutte le immagini. Questo mi ha fatto riflettere: non soltanto perché sono poche le pubblicità che meritano di essere conservate come opere d’arte ed estradate dal loro scopo promozionale; ma anche perché mi sono accorto di quanto venire a sapere l’obiettivo dietro questo slice-of-life animato su un futuro perfetto abbia reso un po’ più amara la dolcezza e la speranza che ritrae. Non si riflette negativamente sull’azienda, ma più sul modo subdolo in cui la nostra capacità di desiderare, e di agire su stimolo di quei desideri, sia stata cooptata dal consumo. E’ estenuante, spiritualmente, vivere in un mondo dove si viene, essenzialmente, costantemente manipolato da forze estranee a scopo di profitto. Pensate alle scene di idillio familiare nelle pubblicità dei biscotti, o del futuro ecosostenibile promesso dalle aziende di energia elettrica. Se siamo bombardati così tanto da queste favolose e suadenti false promesse, è possibile che siamo diventati troppo impervi, troppo cinici per poterci agganciare emotivamente a un’ideale abbastanza da crederlo sinceramente possibile?
Ursula K. Le Guin, scrittrice di fantascienza considerata fra i precursori del solarpunk, ci ricorda nella premessa de La mano sinistra del buio che la fantascienza non è effettivamente in grado di dare una premonizione di “come le cose andranno se continuiamo così”: lo scrittore scrive sempre solo cose che esistono già, in una realtà spirituale sovrapposta alla nostra e accessibile tramite la magia delle parole. Quindi il solarpunk, almeno, ci può fare da monito che la sua utopia è qui fra noi, esiste e, finché il suo mondo riesce a rappresentare ciò che noi vogliamo davvero nel nostro presente, sarà sempre più reale di qualsiasi remoto futuro.
Oppure, possiamo volgerci verso il post-cyberpunk: un’evoluzione del cyberpunk dove i protagonisti vivono dentro la società, coesistono con gli aspetti più utopici e quelli più distopici (che spesso, anche nel nostro mondo, non sono facili da distinguere), e lottano per proteggerla e migliorarla. Come per dire: anziché guardare a una radicale, “magica” dissoluzione di tutti i problemi, perché non prendere atto e partecipare al meglio alla nostra, di storia?