Digitale e musei: si può instagrammare la cultura? 

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Digitale e musei: si può instagrammare la cultura? 

 

Cosa lega i giovani al museo? Come è cambiata l’affluenza durante la pandemia? E soprattutto, quanto di incredibile c’è nel fatto che ancora molte opere ci emozionino fino alle lacrime?

Questo articolo non risponderà in modo oggettivo alle tre domande; o, perlomeno, cercherà di farlo per quanto riguarda la seconda, grazie al prezioso apporto informativo della ricerca degli studenti dell’Università degli Studi Roma Tre. Ma in merito alle altre due, non c’è ricerca che tenga. La cultura è relativa, è soggettiva, nasce da basi consolidate e poi evolve in modo diverso dentro ciascuno di noi, legandosi alle nostre differenti percezioni. Non so dire perché io pianga davanti a Camille sur son lit de mort di Monet, mentre la ragazza accanto a me vi passi davanti senza neanche notarlo. Qualcuno potrebbe rispondere con “mancanza di sensibilità”, ma la ragazza si commuoverà poi per il quadro nella stanza successiva, che a me invece non susciterà alcunché.

L’arte colpisce ognuno di noi in modi differenti e tramite opere e tecniche diverse: per questo è importante che vada valorizzata tutta.

La ricerca degli studenti della facoltà di Economia dell’Università degli Studi Roma Tre è molto utile per acquisire una prospettiva sulla situazione museale durante e post pandemia, con interessanti proposte e spunti per il futuro (tra questi, l’idea per una applicazione che renda il museo un’esperienza personalizzata, degno esempio di quanto sia facile integrare il patrimonio storico-artistico con le nuove tecnologie). È stato interessante confrontare questo lavoro, incentrato sulla situazione italiana, con un viaggio in Olanda che ho svolto di recente, durante il quale ho visitato musei importanti. Tra questi, i più noti sono il Rijksmuseum di Amsterdam e il Mauritshuis di L’Aia.

Ora, potrei certamente cominciare ad elencare l’innegabile bellezza delle opere del Secolo d’oro, esempi eccezionali di cura del dettaglio e figure intimistiche. Tuttavia, trovo più interessante concentrarmi sulla mia impressione della visita, e sull’organizzazione delle due strutture in relazione al Covid, all’accessibilità tecnologica e all’affluenza di giovani; se poi il risultato di questa lettura sarà un avvicinamento al mondo dell’arte fiamminga del Seicento, questo dipenderà dalla vostra curiosità. Ma in quanto lettori de Lapaginabianca.docx, sono profondamente convinta che siate le persone adatte a lasciarsi incuriosire.

Il primo stupore per la grandiosa avanguardia olandese mi coglie ancor prima di entrare al Rijksmuseum di Amsterdam: è mercoledì, il sole - stranamente - splende nel cielo e la città è piena di turisti e comitive. Le file per entrare al museo sono due, ed entrambe scorrono velocemente. Ma non sono per la biglietteria: il biglietto si acquista scannerizzando con lo smartphone il codice QR stampato sulle porte a vetri dell’ingresso, quindi, acquistandolo su internet in pochi minuti (io l’ho fatto in fila). Una volta entrati, poi, due giovanissimi ti accolgono sorridendo, rivolgendosi a te direttamente in inglese, e scannerizzando il codice sul tuo telefono; tempo totale impiegato, 3 minuti.

Il Rijksmuseum è bellissimo. È una struttura architettonica di inizio Ottocento che integra antichità e modernità, creando una fusione affascinante, e rispecchiando egregiamente l’anima olandese. Il personale è gentile, chiunque parla inglese perfettamente e il guardaroba è gratuito in tutti i musei (in alcuni, come quello di storia naturale di Rotterdam, è gratuita anche l’audio guida).

Il meraviglioso museo di Amsterdam ospita una collezione che spazia molto nei secoli, partendo dal primo medioevo al piano terra fino ad arrivare agli anni 2000, al terzo piano. La parte sulla quale mi sono concentrata di più (io come la maggioranza degli altri visitatori) era quella – appunto - sul Secolo d’oro, al secondo piano, in cui si trovavano varie opere di Rembrandt e Vermeer, per il quale ho una passione sconfinata; tra le più note di quest’ultimo avrete sicuramente presenti Stradina di Delft e la Lattaia. 

Devo ammettere che, riguardo all’età media, mi aspettavo più giovani adulti, miei coetanei; invece, la maggior parte erano famiglie con bambini e anziani. Certo, la mia osservazione si basa su tre ore di visita, dunque, non posso certamente fare una stima. Ma nella mia esperienza personale, i giovani olandesi sono meno interessati alla propria arte rispetto agli italiani. E visti tutti i campi in cui i primi ci superano, mi sembra un dato da apprezzare.

A questo proposito, ho trovato estremamente interessante lo studio condotto da sei giovani studenti del corso Laboratorio di marketing culturale, tenuto dalla professoressa Michela Addis. Tra i sottoscrittori del progetto (Lorenzo Iversa, Alberto Mori, Elisa Tursi, Martina Zito, Sara Billi, Ariel Emanuele Di Porto) ho parlato proprio con Martina Zito, che mi ha illustrato il lavoro, svolto in due mesi attraverso l’ausilio di un focus group a target giovanile; i sei studenti, infatti, hanno riunito un gruppo di ragazzi e ragazze dai 18 ai 25 anni, indagando opinioni personali, abitudini e idee per quanto riguarda i musei italiani. La ricerca, mi spiega Martina, è di tipo qualitativo: certo, sono partiti da statistiche Istat ben precise ma l’obbiettivo del lavoro non era di fornire dati tecnici, bensì quello di cercare di capire meglio il rapporto dei giovani con le strutture museali, soprattutto in tempi di pandemia. Della chiacchierata mi resta impressa una definizione: il museo come esperienza.

«Il nostro progetto di ricerca si pone l’obiettivo di comprendere quali siano le “barriere al consumo” che i giovani (18-25 anni) percepiscono rispetto ai musei dell’area in cui sono residenti e come queste barriere influiscano nella loro relazione con i musei nello scenario post-Covid». 

Così si apre il paper del gruppo di lavoro. Le barriere in questione sono quelle definite nella letteratura scientifica, in particolare da Kay, Wong e Polonsky nel 2009, e, nel caso del museo, comprendono:

-Accessibilità (fisica e personale);

- Prezzo del biglietto;

- Tempo di permanenza;

- Prodotto museale;

- Interesse personale; 

- Socializzazione;

- Comunicazione e informazione.

A queste, loro aggiungono anche la barriera Covid-19.

Nonostante rientri io stessa nel target prescelto, quello tra i 18 e i 25 anni, molti pareri emersi dal focus group mi hanno sorpresa: i miei coetanei sono riusciti a concretizzare pensieri comuni e condivisi, talmente intrinseci che tanti di noi non sanno neanche di avere. Tra questi, il fatto che il museo sia considerato “intoccabile”. Certo, ciò non vale per tutti i musei d’Italia, ma è verissimo che le strutture più note (quali Uffizi o Musei Vaticani) abbiano intorno a sé un'aura mistica e sacrale, cosa che può intimorire chiunque voglia esprimere una critica o un’obiezione verso la loro organizzazione o le loro mancanze. È quasi impensabile poter lamentare certe scelte amministrative, o anche solo dare suggerimenti per migliorie, ai direttori di questi musei; e sicuramente, nella maggior parte dei casi, non verrebbero prese per il verso giusto, soprattutto dal momento in cui verrebbero da giovanissimi. Eppure, il fatto che i giovani siano il futuro è valido anche per gli antichi - e spesso anziani - musei. 

Le mostre digitali hanno avuto un grande successo durante la pandemia, come scrivono gli studenti dell’Università degli Studi Roma Tre, non in quanto sostitutivi dei musei, quanto piuttosto come stimoli e veicoli di interesse per avvicinare i giovani verso questi ultimi; al di là dell’aspetto tecnologico, trovo che la mostra digitale abbia rappresentato un passo importantissimo: portare il museo verso i visitatori, in questo caso i giovani e non viceversa.

L’attenzione al pubblico, infatti, è uno degli aspetti fondamentali che i musei dovrebbero sviluppare secondo il focus group; nel mondo di oggi, il “museo come magazzino” non può più riscuotere un grande successo se continua a focalizzarsi su vecchi schemi sociali. È necessaria un’integrazione, una multidisciplinarietà di approcci, non più orientati solamente alla conservazione del patrimonio, bensì al rapporto che esso ha con la popolazione. Dopotutto, senza l’interesse e la persona, cos'è l’arte?

E tuttavia, come spesso accade, la prospettiva giovanile si rivela fiduciosa, positiva e piena di idee, con una forte convinzione che i miglioramenti e i cambiamenti possano accadere. Tra le varie proposte emerse dal focus group, estremamente interessante è l’idea di un’apertura serale del museo, che includerebbe dunque nei visitatori varie fasce prima escluse; il museo, inoltre, dovrebbe diventare una “esperienza a 360 gradi”, con percorsi interattivi, occasioni di incontro, scambio di opinioni, un luogo accogliente in cui la creatività e l’ingegno si sentano validamente stimolati. Un momento sospeso nel tempo di qualche ora, da cui uscire invogliati a tornare, senza sentire la stanchezza sulle gambe; e non più, come dice anche Martina Zito, solo il ricordo di una noiosa e interminabile gita scolastica.

Dalle conclusioni del progetto si evince che, fortunatamente, le barriere non sono un ostacolo insormontabile se è presente l’interesse personale. Tuttavia, per citare la ricerca, «l’apprezzamento di un prodotto artistico dipende dall’interesse personale; dato che gli interessi sono difficili da modificare bisogna agire su tutto ciò che circonda il prodotto».

Insomma, l’arte c’è. È sul resto che si dovrebbe puntare.

Proposte interessanti sono per esempio quella di creare percorsi di visita più logici e chiari, possibilmente anche diversificati (per esempio, per tempo di percorrenza, un po’ come i sentieri di montagna). In questo modo il visitatore si potrebbe organizzare meglio, ed eventualmente tornare più volte per poter seguire ogni percorso con attenzione: sappiamo benissimo che dopo due ore di visita la mente è stanca e, spesso, le parti finali di tante esposizioni non vengono godute a pieno, sostituite dal pensiero del pranzo o di una comoda seduta.

Per quanto, inoltre, molti membri più conservatori si rifiutino di accettarlo, è necessario far pace con il mondo dei social, sfruttando al massimo le potenzialità, non solo nella comunicazione ma anche nella collaborazione con influencer e persone di grande seguito (valido esempio la collaborazione del Louvre con il brand Uniqlo per un merchandising firmato in tema con le opere del museo, per la cui scoperta ringrazio Martina Zito).

Dunque, “sviluppare un brand forte”, scrivono i ragazzi, creando ambienti instagrammabili e contenuti facilmente condivisibili sui social, realizzando viaggi sensoriali grazie all’utilizzo di musica e luci, o tracce per audioguide più coinvolgenti.

Ultima problematica, ma non per importanza, la questione economica. I prezzi dei biglietti sono spesso estremamente alti, cosa che ovviamente costringe spesso a delle scelte (per quanto mi piacerebbe visitare un museo o una mostra al giorno, non posso certo permettermelo, e come me tante altre persone). Un miglioramento generale e una maggiore affluenza ai musei porterebbero sicuramente i modi per garantire accessi più economici e maggiori sconti, per abbassare le differenze di classe e non far sentire escluso il cittadino meno abbiente, che non ha ricevuto un’educazione appropriata e che, troppo spesso, non ama il museo proprio a causa dell’inferiorità in cui la struttura lo pone. È fondamentale non dare per scontato che chi visita un museo sia completamente informato, anzi, sarebbe importante rendere la visita un’esperienza formativa e conoscitiva nuova, in cui imparare e colmare le proprie lacune, venendo anche stimolati a formarsi opinioni.

Non c’è dubbio che si tratti di una sfida, soprattutto in un paese così ancorato al passato come l’Italia; il nostro attaccamento a certe vecchie concezioni è talmente interiorizzato che porta una grande fetta di popolazione a rigettare qualsiasi innovazione o approccio “social”. Tuttavia, un museo nuovo può esistere, come dimostrano tanti casi in Europa e in America del Nord. Un museo nuovo, abitato e inventato dal “popolo nuovo per eccellenza”: i giovani.