Medley Proust

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“Tutto diviene reliquia di quel che non è più”.

Alessandro Piperno conclude così la presentazione del suo Proust senza tempo al salone del libro fiorentino, Testo 2023.  Le sue parole evocano lo spettro del lutto, quel processo terribile e meraviglioso che rende la vita un’eterna spirale di distruzione e rinascita. Perché le reliquie, in fondo, parlano di un passato morto e sepolto, ma sono tali solo per i vivi. Per chi un giorno potrà guardarle con gli occhi della nostalgia.

Ma il capolavoro proustiano è una reliquia?

Forse. Più probabilmente, la Recherche è la storia della creazione di una reliquia. Perché, quando il Distruttore incombe, l’essere umano è chiamato a fare una scelta sul senso della vita. Per Marcel Proust, il dilemma potrebbe suonare pressappoco così: vivere o raccontare? Immergersi nel mondo o trascendersi? Elevare sé stessi o la propria opera? Adorare una reliquia già compiuta o edificare quella che verrà?

Queste e altre domande hanno affascinato anche Maura Gancitano, Ilaria Gaspari, Edoardo Rialti e Francesco D’Isa, i quali hanno omaggiato il grande romanziere con un evento al Salone Internazionale del Libro di Torino. Nella loro staffetta letteraria per «L’indiscreto», emerge proprio il tema della reliquia: il feticcio, l’idolo. In effetti, nel suo essere oggetto di adorazione, la Recherche si fa idolo. Tuttavia, “più costruisci la casa del dio, meno sarà disposto ad abitarci,” afferma biblicamente Rialti. Un monito che vale per Proust — quando era in vita — e per i proustiani.

Il capolavoro, infatti, nella sua architettura “devastante per uno scrittore, perché c’è già tutto”, ricorda sempre Rialti, è assimilabile proprio al tempio che l’iconoclasta raderebbe volentieri al suolo. La sua mole immensa — sette libri dove regnano prolissità e digressione — è già di per sé uno schiaffo all’essenziale, oltre che un fattore scoraggiante per i non iniziati, confessa la filosofa Gancitano. E se è indubbio che Proust è stato un maestro nell’armonizzare forma e contenuto, la scelta di erigere un’opera tanto monumentale non può che ricordare la costruzione di una certa Torre, per restare nella metafora biblica.

Sicuramente un po’ di superbia ci sarà stata — del resto era Proust, mica l’ultimo degli scemi. Ma questa superbia si ritrova anche nella sua eredità: l’ha detto Piperno a Firenze e lo ridicono gli ‘indiscreti’ a Torino. Del resto, un vero proustiano si misura in quante volte ha letto la Recherche… il vitello d’oro va osannato e guai se nessuno lo sa! Una filosofia coerente con l’opera stessa, piena zeppa di feticci e idolatri. A tal proposito, Francesco D’Isa racconta di quando Swann — uno degli eroi più amati dell’epopea proustiana —, per farsi piacere la mantenuta di turno, Odette de Crécy, ne fa il suo feticcio: trova che la cocotte somigli alla Sefora di Botticelli. Eppure, è così che scatta la trappola dell’idealizzazione. La bellezza insipida diventa inarrivabile nella sua nuova livrea estetica. Inarrivabile e, quindi, massimamente desiderabile! fino al punto di sposarla… e realizzare che l’idolo è vuoto: la divinità ha lasciato la sua dimora.

Lo descrive bene Edoardo Rialti. Come un Dante francese, Proust prende la Vita nova e la ribalta. Offre un gioco continuo di seduzione e disillusione, di avvicinamento e rifiuto, climax e anticlimax. Gli eroi della Recherche non combattono per l’oggetto amato, ma per l’amore dell’amore. Una lotta tra possesso e desiderio dove il primo è sempre la tomba del secondo. E, sebbene sia una lotta senza vincitori, non tutti gli sconfitti suscitano uguale compassione. È ancora Swann a essere paradigmatico, stavolta lo rievoca Ilaria Gaspari: quando Madame de Guermantes torna indietro, non per l’amico destinato a morire, ma per intonare le calzature al vestito, la macabra ironia proustiana si fa commovente.

Ma se si tratta solo del culto di feticci e della rovina degli idolatri, perché Proust fa ancora testo? Perché la sua opera resta una splendida festa di morte?

Perché la Recherche è la storia… di sé stessa. 

Marcel Proust, nello scriverla, vi si immerge come fosse “il suo personale inferno in cui plasmare la sua diavoleria”, dice Piperno. Un inferno dalle pareti di sughero, avvolto nei vapori dei suffumigi e alle dipendenze di Céleste Albaret, la fidata governante. Proust si rintana qui per ricreare tutte le Albertine, i Saint-Loup, gli Swann, le Oriane, gli Charlus e ogni altra divinità del suo personale erebo mondano — ‘Sottosopra’ dei salotti che popolavano le sue serate. Ma il Marcel-demiurgo non emerge che alla fine della Recherche: solo allora il personaggio diventa autore. E lo diventa con il lutto della sua Albertine.

Si torna all’inizio: lutto. O il crepuscolo degli idoli e l’alba del Tempo ritrovato.

Forse il volume più toccante di tutta la Recherche. È qui che s’incontra l’altrui morte come senso di perdita irrimediabile: è una parte di sé che muore. Nella storia, Marcel perde Albertine e di lì a poco comincerà a scrivere l’opera. Quella stessa opera di cui abbiamo già letto le tremila pagine precedenti—o successive, nella linea del Proust-narrante. La stesura del romanzo rappresenta, da un lato, l’esito del lutto. Realizzare che è l’oggetto amato a essere perduto, non una parte di sé—per dirla alla Freud—, libera l’energia necessaria a entrare in dialogo con un principio creativo: “gli avi, Dio, gli antenati”, dice Rialti. D’altra parte, la scrittura è anche un processo di rielaborazione ulteriore, un lutto del lutto. Il feticcio annientato, non più tabù per l’idolatra, diviene finalmente accessibile nella sua autenticità: diventa vero nella tenue luce della nostalgia.

Questo è il momento in cui la consapevolezza della morte incontra quella dell’amore.

Amore, non tanto per l’involucro mortale che si era voluto vestire d’infinito, parafrasando il direttore de «L’indiscreto». Ma amore per una vita che ha trovato senso nella creazione. Quel Fin che farà dire a Marcel, lo ricorda Piperno, “io sono in pace: non avrò dato la mia vita invano”. Così lo scrittore—ricorro alla metafora alchemica tanto cara a Jung—cuoce la sua pietra filosofale, produce l’Opus, il distillato del proprio animo: realizza sé stesso. L’uomo mondano si trascende, si trasforma in mistico e restituisce qualcosa al mondo. Perché, ancora Piperno, “la vita è interessante solo se può essere messa al servizio di quello che fai.”

Marcel Proust si è messo al servizio della sua Recherche.

Per questo, non va dimenticato.