Le strategie dei tarocchi

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«Tutto è magia, oppure niente».

Sono parole di Novalis, spirito eclettico vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, che esprimono il paradosso della realtà. O meglio, come la nostra percezione di quest’ultima sia paradossale. Ma la realtà, in barba alla nostra percezione, potrà  riderci in faccia: «Paradossale o no, così sono e così resto!» Una risposta che sposa l’approccio gnostico, dove per gnosi s’intende un modello di conoscenza in cui la realtà ultima delle cose è un mistero.

Tina Tonampe, la “sapientissima maga maliarda” curatrice dei Tarocchi Pantagruelici di Divinazione Patafisica, presenta questo tarocco di WoM Edizioni a Testo 2023. E lo fa parlando proprio di gnosi, poiché ogni quesito sull’esistenza non può che ritornare al mittente, in un cammino circolare in cui principio e fine coincidono: è il viaggio ciò che conta. Carl Gustav Jung avrebbe parlato di circumambulazione, un procedere in cerchio attorno a un fulcro irraggiungibile – la realtà ultima del Sé – da cui ci possiamo solo allontanare o avvicinare. Tanto varrebbe starsene fermi… se non fosse che, con tempo e profondità, un cerchio piatto può diventare una spirale. Una progressione nel cammino per diventare sé stessi, dove a ogni fine corrisponde un nuovo inizio.

La circolarità, quindi, può essere la filosofia celata dietro questa ennesima versione dei tarocchi. Che non è sovrapponibile, ricorda Tonampe, né all’ermeneutica psicoanalitica che Alejandro Jodorowsky applica ai Tarocchi di Marsiglia, né tantomeno alla tradizione divinatoria del folclore popolare. Somiglia, invece, all’anima dell’I Ching, l’antico testo oracolare cinese, dove ognuno dei 64 esagrammi – detti gua – è legato al precedente in una continuità senza fine: non a caso, l’ultimo simbolo dell’opera è Wei Ji, spesso tradotto con “non ancora compiuto”. Del resto, la divinazione patafisica è un’emanazione dell’omonima scienza del dottor Faustroll, un personaggio di finzione nato dalla penna di Alfred Jarry:

«La Patafisica è la scienza del particolare e studia le leggi che reggono le eccezioni e spiega l’universo supplementare a questo.»

Parafrasando la Commedia: “lasciate ogne certezza, voi ch’intrate”.

Le buffe chimere – i mostriciattoli di François Rabelais con cui Tina Tonampe ha popolato il tarocco WoM Edizioni –, danno vita ai classici arcani maggiori o ad altri mai visti. Sono un gioco simbolico, un caleidoscopio di immagini che fa appello soprattutto alla parte più primitiva della nostra psiche, quella capace di fantasticare, sognare e creare. La parte che, restando nell’ottica junghiana, è comune a ogni membro della specie: il mare magnum dell’inconscio collettivo da cui nascono miti, religioni e intere civiltà.

Ma non si vive di soli archetipi.

Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counsellor, porta l’esempio degli Arcani Filosofici, i tarocchi realizzati a partire da un progetto dall’artista Francesco D’Isa per D Editore. Questo secondo tarocco di Testo 2023, al pari di quello WoM Edizioni, contiene soltanto gli arcani maggiori, tra reinterpretazioni degli originali e nuove aggiunte. Gli autori, d’altra parte, ne propongono un utilizzo ben più pragmatico rispetto a quello patafisico. Infatti, Dulbecco spiega come gli Arcani Filosofici siano un importante strumento di lavoro nei gruppi, soprattutto in età evolutiva. Le immagini minimaliste di Francesco D’Isa possono aiutare a rompere il ghiaccio quando mancano le parole. Oppure diventare lo spunto per una narrazione, la scintilla creativa che accende il lavorio della fantasia.

A questo proposito, D’Isa ci tiene a specificare come le illustrazioni rispecchino la soggettività adolescenziale del loro disegnatore, ma anche le necessità contestuali entro cui si sarebbe inserito il lavoro – una rivista punk di qualche anno fa di cui non cita il nome. Oggi, ormai adulto, in un mondo simbolico così vario, riconosce la sua traduzione del tarocco come una delle tante possibilità. Senza la pretesa dei teosofi di rintracciare l’origine mitica occulta di un semplice gioco di carte – peraltro nato proprio in Italia: altro che Egitto!

Quindi, chiunque può inventare un mazzo di tarocchi?

Sì e no. Sì, se l’obiettivo è quello di produrre un’imitazione che rifletta l’estetica soggettiva dell’artista. No, se invece si cerca uno strumento in grado di canalizzare la valenza simbolica della psiche collettiva. Differenza analoga a quella che fa Jung in Psicologia e poesia, dove distingue tra creatività psicologica e creatività visionaria: la prima vincolata alla coscienza – decifrabile in termini psicologici individuali – e la seconda che «sembra provenire da un remotissimo sfondo di epoche preumane o da sovrumani mondi di luce o di tenebra».

Farò un esempio banale: la croce è un simbolo rintracciabile in molte culture, talvolta lontane tra loro nel tempo e nello spazio. Ne conosciamo di vari tipi – latina, greca, cristiana ecc. –, eppure la loro ricchezza simbolica non sta nella rappresentazione estetica, quanto nel loro rimando a qualcos’altro. Ciò che noi vediamo, il significante, non esaurisce ciò a cui questo rimanda, il significato: su quest’ultimo possiamo fare solo ipotesi. Nel caso della croce – prendo in prestito la sapienza dello psichiatra svizzero – abbiamo un disegno che rappresenta l’incontro di due coppie di opposti. Jung parla lungamente e in più occasioni della quaternità, di come sia un tema ricorrente nella storia della specie umana, caratteristica che le vale la qualità di archetipo. Ma le croci dei luoghi di culto o delle pitture dell’era preverbale sono solo immagini della quaternità, non la quaternità stessa – il Ceci n'est pas une pipe di René Magritte. Ciò vale anche per i tarocchi: le loro immagini sono evocative solo se rimandano ai contenuti inscritti negli angoli più remoti della nostra mente, quelli comuni a ogni essere umano. Diversamente, restano lettera morta.

Questa importante differenza serve a distinguere i simboli dai segni – uno dei mantra della tradizione junghiana –, dove i primi sono perennemente rigenerati dal legame con una dimensione primordiale: la cosa-in-sé, la singolarità che sfugge e alimenta la tensione dei significati. I secondi, invece, sono vuoti simulacri, senza dialettica, né rimando a un’entità ulteriore. Per i segni, rivisitando il detto per cui non bisogna guardare al dito ma alla luna, è come se quest’ultima non ci sia affatto: il dito indica qualcosa che un tempo, forse, era là, ma ormai non è più possibile saperlo.

Non sarò io a giudicare se le interpretazioni dei tarocchi WoM Edizioni e D Editore conservano questo valore simbolico nel suo senso più puro. Tuttavia, ho riscontrato con piacere che i relatori hanno trovato un modello di riferimento nel sopracitato testo oracolare cinese: l’I Ching. Non voglio aprire una parentesi su cosa sia e come funzioni: sarebbe un discorso fin troppo ampio, che affronterei da vero fanatico… per cui mi limiterò a specificare che l’opera – le opere, perché ne esistono svariate edizioni –, proprio come i tarocchi, permette di confrontarsi con la dimensione simbolica radicata nella nostra psiche. Attenzione: radicata non vuol dire uguale per tutti.

Sempre Jung, nella sua celebre introduzione all’I Ching tradotto da Richard Wilhelm – in Italia da Veneziani e Ferrara per Adelphi Edizioni –, afferma che un utilizzo fruttuoso dei simboli oracolari dipende dal mondo emotivo del lettore. È infatti il grado di consapevolezza dei sentimenti che può fare da ponte tra la nostra coscienza, lo strato più superficiale e volubile della psiche, e l’inconscio collettivo, cioè quel fondale comune all’umanità da cui originano gli universali della specie.

Tina Tonampe, a tal proposito, cita il contributo del neurologo delle emozioni Antonio Damasio, secondo il quale l’esperienza emotiva non sta nel cervello ma è indissolubilmente legata al corpo. Lo spiega nel suo libro più famoso, Lerrore di Cartesio – fece tante cose buone, Cartesio, ma dissociare corpo e mente non fu una di queste. Ciò per sottolineare come i tarocchi, in virtù della loro valenza simbolica, possono vibrare all’unisono con la totalità dell’individuo, non solo con la sua corteccia cerebrale.

In altre parole, il rapporto con i tarocchi non deve limitarsi a una comprensione intellettuale, ragionevole, razionale, in una prospettiva che soddisfi i nessi di causa-effetto tanto cari alla logica. Questa aspirazione riduttivista, figlia dell’Età dei Lumi, si fonda sulla speranza – vana – che sia possibile pervenire a risposte definitive. Già la fisica, con le teorie della relatività e dei quanti, ha tolto il terreno da sotto i piedi a questa pretesa dell’intelletto, nel macro e nel microcosmo. E se ciò vale per le leggi che regolano l’universo, sarà vero anche per quelle che regolano l’animo umano. Dopotutto, l’assioma junghiano sull’identità tra psiche e mondo deve ancora essere smentito. 

Quel che è certo è che rinunciare all’egemonia dell’intelletto come unico principio regolatore dell’agire umano è qualcosa di inaccettabile per la coscienza, poiché rappresenta uno scacco troppo grande al nostro orgoglio: contemplare il mistero significa ammettere la sconfitta. Ecco allora che uno strumento come il tarocco rischia di sprofondare nell’alveo dell’esoterismo, dell’occultismo, della divinazione, quando siamo fortunati. In quello della malafede e della cialtroneria quando lo siamo meno…

Ma non è il caso di Tina Tonampe, Francesco D’Isa e Alessia Dulbecco. Gli autori di questi due differenti approcci ai tarocchi hanno affrontato la materia con la serietà dell’empirista che era propria dello stesso Carl Jung – sebbene ciò gli valse l’appellativo di “mistico” in senso spregiativo. Che le carte siano ispirate ai personaggi di fantasia di uno scrittore del rinascimento francese o alla poetica minimal di un artista contemporaneo, poco importa. Il processo creativo è qualcosa che va ben oltre la volontà del singolo, che viene da lontano e porta il peso delle esperienze di tutti coloro che sono venuti prima di noi. Perché siamo nani sulle spalle dei giganti e non potrebbe essere altrimenti. 

E allora: qual è la strategia vincente con i tarocchi?

Come mi ritrovo spesso a dire in qualità di psicologo, non c’è una risposta univoca. Alessia Dulbecco parla da professionista che lavora con i gruppi, dove il tarocco può diventare uno stimolo verbale – se si usa solo il titolo degli arcani – e visivo: per esempio, per rompere il ghiaccio o costruire storie. Ne fa un uso strumentale, secondo coscienza e necessità. Francesco D’Isa, invece, ha l’anima dello sperimentatore e reinventa i tarocchi a modo proprio, cercando l’ibridazione con altri medium: arricchisce gli Arcani Filosofici con una didascalia ispirata alle Dieci Ali dell’I Ching – piccoli commenti a margine del testo oracolare attribuiti a Confucio. Tina Tonampe, infine, si approccia al tarocco come strumento di speculazione, non finalizzato a trovare risposte ma a formulare domande.

Tuttavia, le strategie dei tarocchi non si esauriscono qui. Ognuno può rapportarsi a questo affascinante strumento in base allo spirito che più gli si addice: l’unico limite è la fantasia. Permettere a uno scientismo ortodosso di inibire il gioco con un prodotto del genio creativo umano sarebbe solo un peccato. In questo senso, come affermano quasi all’unisono la maliarda Tonampe e l’artista D’Isa, la ragione diverrebbe un «parassita delle emozioni» capace di privarci della nostra parte più autentica, quella che attinge alle immagini senza tempo di cui ogni tradizione oracolare è portatrice.

Basti pensare che senza l’I Ching non avremmo uno dei più celebri romanzi del visionario scrittore di fantascienza Philip K. Dick, The man in the high castle – fino a pochi anni fa noto in Italia come La svastica sul sole –, scritto con l’introspezione guidata dall’antico classico cinese. Ma gli autori dei tarocchi presentati a Testo 2023 citano anche diverse produzioni musicali di John Cage, un altro esempio di co-costruzione uomo-oracolo.

Per concludere: caos o determinismo, caso o predeterminazione, magia o non magia, la storia è sempre la stessa. Comunque decidiamo di guardare alla realtà, non potremo mai fare a meno di una cornice di riferimento. I tarocchi, quale che sia la loro tradizione di appartenenza, non possono prescindere dal contesto che li ha prodotti né da quello di chi li legge. E se ogni psiche è un mondo a sé e, al tempo stesso, un prodotto del mondo, non è possibile cedere al relativismo radicale di una soggettività assoluta, né ambire alla conoscenza oggettiva di una Verità con la maiuscola.

Siamo intrappolati nel paradosso della realtà da cui siamo partiti: se lasciarci andare allo sconforto, abbracciare un’unica Fede o giocare col paradosso, sta a noi. Si può scegliere una strategia… e concedersi la possibilità di cambiarla. Del resto, come dice il Buddha:

«È buono ciò che è utile».