Interpassività: Come stiamo perdendo noi stessi

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Se utilizzate spesso piattaforme video come Twitch o Youtube, e magari vi siete imbattuti e affezionati a content creators che si registrano seduti alla propria scrivania, allora sapete che cosa sono le reaction. Il significato del termine è abbastanza intuitivo: qualcuno si filma mentre osserva qualcosa e “reagisce”, esprimendo giudizi o emozioni. Potrebbe essere un fan di una serie tv che guarda estasiato per la prima volta il trailer di una nuova stagione, o una personalità del web che guarda una serie di filmati divertenti e immancabilmente scoppia a ridere, o magari qualcuno con una specifica nicchia che dà il proprio parere su altri contenuti simili ai suoi. Ora che produrre contenuti è così facile, e si può essere spettatori e protagonisti senza soluzione di continuità, siamo messi di fronte all’evidenza che, come Amelie ci ha insegnato, guardare chi guarda uno spettacolo può essere, a volte, lo spettacolo. Certe volte qualcosa ci colpisce talmente tanto che moriamo dalla voglia di farlo vedere ai nostri amici, e la loro reazione ci emoziona tanto quanto la cosa stessa; ecco perché, quando registriamo le persone nei nostri schermi come presenze amichevoli, vere, questo nostro bisogno si trasferisce su di loro.

Essendo le reaction un tipo di contenuto così diffuso, c’è chi si interroga sulla loro utilità e sul loro valore artistico. D’altronde «tutto può essere arte» (frase a cui nemmeno gli artisti stessi credono davvero) ma quanto è utile incentivare la creazione di contenuti che si basano su altri contenuti senza l’aggiunta di niente di valore? Bo Burnham rappresenta questo dilemma in uno sketch del suo speciale “Inside”, nel quale impersona uno Youtuber che fa una reaction a un video; eccetto che il video è lo sketch stesso, e all’interno di esso avviene la stessa cosa, fino a creare un assurdo effetto matrioska di video dentro video, dando vita a un gioco di specchi di vacua autoreferenzialità. Quanto è pericoloso un mondo dove è così facile e produrre contenuti online senza originalità e avere successo? Per non parlare della fatale questione del copyright, sia in senso legale sia in senso più spirituale: È giusto che io abbia la possibilità di registrarmi mentre, per esempio, rido guardando “Inside”, e di lucrare su quella registrazione? Sto aggiungendo qualcosa di sufficientemente nuovo all’opera d’arte per giustificarne l’utilizzo?

La risposta più semplice è che… dipende. Esistono influencer e personalità del web che sono naturalmente divertenti e capaci di intrattenere restando se stessi, e che possono aggiungere valore all’esperienza di fruizione. Ugualmente, ci sono reaction fatte da persone esperte e intelligenti, che offrono il proprio parere in diretta su ciò che stanno osservando: critici cinematografici che reagiscono ad un film, musicofili che ascoltano una nuova canzone, ma anche cuochi che analizzano e criticano il video di cucina di qualcun altro, artisti che guardano una serie di opere d’arte altrui, professionisti che osservano il modo in cui il proprio mestiere viene rappresentato nel cinema e mettono in luce ciò che è vero e ciò che è inventato. In generale, le reaction di aspetto più specialistico e analitico sono le più facili da giustificare: sono come delle video-consulenze gratuite su qualcosa che interessa lo spettatore. Il primo tipo, invece, è quello più interessante, quello che fa più discutere e che ci porta a lanciarci in discussioni filosofiche del tipo «Perché andiamo a cercare cose simili?», «Qual è il valore di tutto questo?». Ed è proprio nella filosofia che troviamo un concetto piuttosto utile: quello di interpassività.

   Il filosofo Robert Pfaller ha coniato il termine negli anni ’90 per definire l’opposto di interattività. Se l’interattività è, infatti, l’essere attivi attraverso l’altro, il delegare il compito di agire a uno strumento esterno, l’interpassività è l’atto di delegare a un mediatore il compito di subire, di provare emozioni. Trent’anni fa, le nuove tecnologie e i new media avevano saturato la cultura di prospettive utopiche sulle infinite possibilità del genere umano, e alla base c’era l’interattività: l’interattività nell’arte promette un consumo più elevato, meno immobile, migliore. È un concetto che oggi persiste con l’evoluzione di realtà virtuali, metaversi, esperienze di immersione videoludiche in cui ogni esperienza è unica e determinata dallo spettatore. Più controllo, più potere, più possibilità. Ma dietro tutto questo, l’interpassività si evolve di pari passo, invisibile ma presente. Come si manifesta?

Pfaller faceva l’esempio di un videoregistratore: un tempo, una persona che non aveva la possibilità di guardare un programma in tv poteva registrarlo e rivederlo dopo, ma spesso e volentieri le cassette registrate non venivano mai viste. Il solo atto di registrare il programma costituiva un atto soddisfacente, per quanto fosse solo il videoregistratore, in un certo senso, a guardarlo. Se l’esempio ci risulta distante, pensiamo a “La Mia Lista” su Netflix: le lunghe liste di film che catturano il nostro interesse ma che, invece di guardare, teniamo in serbo in questa collezione personale a tempo indeterminato. Anche se la causa è spesso pigrizia o procrastinazione, e anche se qualche volta quei film li guardiamo, l’atto di “collezionare”, di aggiungere a uno scaffale virtuale, ci trasmette effettivamente un certo piacere che, spesso, non ammettiamo e nemmeno notiamo. È il piacere interpassivo, che nasce dal sapere che un mediatore-oggetto consuma e ne gode al posto nostro. E questi non sono nemmeno gli esempi più apparenti.

Slavoj Zizek, celebre filosofo contemporaneo, cita l’esempio delle risate nelle sitcom, e di come esse possano quasi svolgere la funzione di svuotare lo spettatore del desiderio di ridere, lo de-soggettivizzano, sollevandolo dalla responsabilità di un’esperienza di visione individuale. Oggi, noi non amiamo più le risate nelle sit-com, le troviamo obsolete, manipolatorie, finte: noi (inconsciamente) cerchiamo un mediatore migliore a cui delegare la nostra passività, e ricaviamo un qualche piacere dal farlo. Le reaction divertite già citate sono la loro forma contemporanea, più “performante”. 

L’interpassività, in generale, non è un fenomeno nuovo: dai cori nelle tragedie greche, alle prefiche che piangono ai funerali sotto compenso, il concetto di emotività mediata ha lasciato tante tracce in culture diverse, e la psicanalisi freudiana ci offre diverse chiavi di lettura attraverso il concetto di feticcio, del cosciente diniego di piacere a noi stessi, di ansioso respingimento dell’oggetto dei nostri desideri. Oggi però, in un mondo che cede al paradigma del massimalismo nel consumo e al mito della produttività, abbiamo soppresso questa realtà della natura umana.

Lo smartphone è il mediatore interpassivo per eccellenza: gli affidiamo ormai la fruizione di ogni piacere diretto che incontriamo, dalla magnificenza di un tramonto o di un’opera d’arte, alla spensieratezza di una serata tra amici. L’obiettivo delle nostre telecamere “gode” della bellezza al posto nostro, che invece distacchiamo lo sguardo. L’app BeReal ce lo dimostra: piuttosto che vivere noi stessi nel momento, carpe diem, affidiamo la funzione di carpe alla piattaforma.

Spesso si fanno discorsi superficiali su cose come queste e si traggono conclusioni sbagliate: che non si ha più il gusto per le “cose autentiche”, che i giovani vanitosi e opportunisti fanno foto e vendono la bellezza in cambio di like e attenzione sui social. Per quanto possa esserci un fondo di verità, questi discorsi sono incompleti e improduttivi, proprio perché rimproverano l’assenza di una fittizia “autenticità” di fruizione senza esaminare l’idea che questi fenomeni sono, nel senso antropologico del termine, assolutamente autentici.

Zizek fa una riflessione illuminante sull’edonismo e sul nostro inconscio collettivo. Sostiene che, se per buona parte della storia la società ci poneva in una posizione di privazione voluta da un ordine metafisico superiore, e il nostro io individuale ci spingeva alla trasgressione e al consumo, il mondo contemporaneo ci pone all’opposto: siamo portati a un consumo cospicuo, a vivere secondo principi di individualismo, a perseguire a tutti costi l’unicità, a far fruttare il nostro potenziale e a esaltare noi stessi. Dunque, il nostro bisogno di privazione, di allontanamento da ciò che desideriamo, si è reso inconscio, represso: dobbiamo essere attivi ad ogni costo, costantemente. Questo produce ciò che Zizek chiama pseudo-attività: la spinta nevrotica a compiere attività, come collezionare liste di film o istantanee della nostra vita, che ci danno l’illusione di produttività ma che di nascosto si assicurano l’esatto opposto.

“Narcisista” è una parola che viene strausata nel lessico quotidiano, come tanti altri termini psicanalitici. Il narcisista è colui che percepisce se stesso al centro del mondo e, pertanto, pone ogni cosa esterna (persone incluse) in relazione a sé. Non è necessariamente, come qualcuno ancora pensa, la convinzione di essere migliori degli altri. È un disturbo del senso di sé, dell’autoconsapevolezza, o self-awareness. Non sarebbe esatto dire che viviamo in un’epoca in cui ci sentiamo tutti migliori degli altri, ma sicuramente la consapevolezza di noi stessi ci affligge continuamente.

È pesante essere se stessi; spesso ci sentiamo come Atlante, chini sotto il peso della nostra stessa identità. Abbiamo potere infinito sotto i nostri polpastrelli in ogni momento, ma per quanto il nostro potenziale di esprimerci sia infinito, sentiamo sempre meno la presenza di un interlocutore che risponda, che ci osservi. Come possiamo lamentarci, dunque, con una presenza così malsana di attività attraverso strumenti esterni, se ci affidiamo a meccanismi ancora più malsani di interpassività?

È a questo meccanismo di auto-privazione inconscio, ripudiato e dunque alimentato, che dobbiamo forse tutte le realtà più oscure del nostro mondo: la rinascita del pensiero oscurantista e religioso, la destra cospiratoria e repressiva, l’alienazione quasi volontaria dalla realtà collettiva, la proliferazione di guru e ciarlatani che vendono una filosofia primitivista come soluzione a tutti i mali del mondo. Tutto questo è il risvolto negativo della realtà in cui viviamo, e la cosa più pericolosa che possiamo fare è non riconoscerlo per quello che è, ma cercare di sottrarcene, perpetrandone così l’esistenza.

Ciò che può risultare un’anomalia della società potrebbe essere una clausola nascosta che ne permette il funzionamento, il risvolto della medaglia indispensabile per la sua esistenza. Per questo motivo è difficile pensare di operare un cambiamento volontario sui meccanismi d’interpassività più pervasivi, perché essi esistono in concomitanza con (e a causa di) un mondo che ci vuole sempre più attivi e che ci condanna così ad essere semplicemente, purtroppo, sempre più privi di noi stessi.

Per fortuna riflessioni filosofiche come queste, oggi più che mai, ci offrono la preziosa possibilità di acquisire consapevolezza e, attraverso tale consapevolezza, cercare un equilibrio tramite il quale progredire.